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Cuore di barbone


Uno studio presentato nel corso del meeting annuale dell’International Society for Heart & Lung Transplantation solleva il problema: nei trapianti di cuore se il donatore è un senza fissa dimora il ricevente potrebbe avere minori chance di sopravvivenza.
È il caso di escludere questa categoria dalla lista dei potenziali donatori?

04 MAG - Non è sorprendente il dato emerso da uno studio condotto dal team di Dorothy Lockhart del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles e presentato nel corso del trentesimo meeting annuale dell’International Society for Heart and Lung Transplantation.Le persone che subiscono un trapianto di cuore hanno una sopravvivenza minore se il donatore è un senza fissa dimora. Il dito è puntato sulle infezioni: “i senzatetto sono a maggior rischio di infezioni a causa delle loro condizioni generali di salute, hanno un sistema immunitario depresso e condizioni di vita e igieniche peggiori della popolazione generale”, ha precisato Lockhart. “Molti di loro, inoltre, sono immigrati e provengono da zone del mondo con malattie infettive endemiche”, ha aggiunto la ricercatrice. “E la donazione dei loro organi può esporre il ricevente al rischio di contrarre queste infezioni”.
Da qui alla proposta di revisione delle categorie a rischio (che a oggi comprende quanti abusano di farmaci, detenuti, tossicodipendenti, prostitute o soggetti che hanno abitudini sessuali promiscue, persone affette da alcune malattie ematologiche e infettive), il passo è stato breve.
I risultati dello studio, hanno ammesso gli stessi autori, non sono conclusivi e “sono necessari ulteriori indagini che arruolino un più ampio numero di pazienti per confermare se i senzatetto devono essere inseriti dai CDC tra le categorie a rischio”. Tuttavia sollevano una questione finora mai indagata.
LO STUDIO
I ricercatori hanno arruolato circa 300 adulti che avevano subito un trapianto di cuore tra il 2005 e il 2009. Di questi soltanto 10 avevano ricevuto l’organo da un senzatetto.
Dall’analisi dei risultati è emerso che, mentre nel gruppo che ha ricevuto l’organo da donatori “con un tetto sulla testa” la sopravvivenza declinava gradualmente a partire da tre anni dopo il trapianto, nel gruppo dei senzatetto crollava dopo sei mesi e, a tre anni, solo la metà dei trapiantati sopravviveva. Dei cinque deceduti, tre sono morti proprio a causa di infezioni.
Invitato a intervenire nel corso della sessione, Duane Davis, direttore del dipartimento di chirurgia cardiovascolare e toracica del Duke University Medical Center di Durham, in North Carolina, si è detto scettico sulle conclusioni, visto il piccolo numero di donatori arruolati. Ma, soprattutto, sull’opportunità di ridurre ulteriormente la già ristretta platea dei donatori. “Penso che abbiamo bisogno di inserire questo studio in una prospettiva più ampia”, ha commentato. “Attualmente usiamo solo un quarto degli organi provenienti da potenziali donatori di cuore. Aggiungere un’ulteriore scusa per non trapiantare probabilmente non è la direzione verso cui conviene muoversi. Dobbiamo piuttosto pensare a come fare per impiegare tutti i cuori che possono essere utili ai pazienti”.
Antonino Michienzi

04 maggio 2010
© Riproduzione riservata

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