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La proposta Udc e il nodo dell’universalismo

di Ivan Cavicchi

19 DIC - L’Udc ha aperto pubblicamente il confronto sul proprio “progetto di riforma” sulla sanità. La proposta si può dividere in due parti: misure di razionalizzazione “nel” sistema e misure di cambio “del” sistema. Le prime restano nel solco dell’approccio marginalista di questi anni, quindi razionalizzazione, ottimizzazione, efficienza, efficacia, appropriatezza, evidenza, ecc.
 
Le seconde invece si basano sul postulato che l’universalismo sia incompatibile con la sostenibilità finanziaria, e che per questo andrebbe ridimensionato definendo priorità, selettività, finanziamenti aggiuntivi. Prendersi la responsabilità di ridiscutere l’universalismo non è cosa da poco si tratta di:
* cambiare la natura pubblica del sistema
* reinterpretare l’art 32 della Costituzione
* proporre un diverso rapporto tra morale e economia.
 
L’universalismo prima di ogni altra cosa è una teoria della giustizia basata sul diritto per la distribuzione di valori d’uso come la salute giudicati come indispensabili e inalienabili perché attinenti alla vita delle persone. Ridiscuterlo significa decidere la sorte di milioni di persone soprattutto di quelle più socialmente deboli. L’universalismo è l’unica possibilità di cura per i più deboli. Per questo esso, prima di ogni altra cosa, è una questione morale.
 
Definire “principi espliciti e condivisi di giustizia distributiva per l’individuazione delle priorità” è il cuore della proposta Udc. Ovvero: come rendere l’universalismo meno giusto per rendere il sistema più sostenibile. E’ del tutto evidente che universalismo, selettività, priorità sono delle antinomie. Per metterle insieme e superarne le contraddizioni, ci vorrebbe una teoria della giustizia di ordine superiore, che non vedo, capace di ripensare l’universalismo ma senza negarlo e aprendo la strada ad un altro genere di giustizia in mancanza della quale, la questione morale dei soggetti deboli cede fatalmente, alla questione economica. 
 
Quale è la proposta dell’Udc? 
* Selezionare l’essenziale per priorità, cioè in pratica, si propongono dei “livelli essenziali prioritari di assistenza” che semplicità indico con l’acronimo Lepa per differenziarli dai Lea
* definire liste negative di prestazioni in modo tale che tutto ciò che non è esplicitamente escluso è automaticamente ammesso. Si tratta di superare la prescrittività dei Lea e di ricorrere alla proscrittività…nel senso che le possibilità di cura sono tradotte nel loro contraddittorio come “non possibilità” oltre le quali tutto è facoltativo ma non obbligatorio
* ridurre la copertura pubblica di cui il cittadino ha diritto, quindi ridurre il diritto, per fare spazio ad altri soggetti erogatori (fondi, assicurazioni, mutue) che subentrano al posto dello Stato.
 
Su questo meccanismo molte sarebbero le cose da chiarire ma una in particolare: siccome si tratta di “ridefinire il perimetro dei lea” per scopi di sostenibilità finanziaria l’operazione per avere importanti effetti, deve essere consistente. Quanto consistente? La proposta non chiarisce né questo punto né altri per cui siamo costretti ad una simulazione: supponendo che il passaggio dai Lea ai Lepa sia una riduzione importante delle coperture pubbliche e che ai Lepa ricorrano prevalentemente coloro che non hanno possibilità di reddito e che chi farà uso delle assicurazioni private potrà contare su delle agevolazioni fiscali, quale giustizia distributiva? 
 
Prima di rispondere vorrei premunirmi di una clausola e di un termine di paragone: la clausola è che se parliamo di “giustizia” e di “sostenibilità”, si devono soddisfare tanto le esigenze morali quanto quelle economiche; il termine di paragone che propongo è la teoria della giustizia quale equità di Rawls, quindi una teoria liberale. Rawls immagino avrebbe ammesso le priorità e la selettività, cioè le diseguaglianze, ma avrebbe subordinati i Lepa a due condizioni:
* il più grande beneficio ai meno avvantaggiati
* eguaglianza di opportunità per tutti
 
La mia impressione è che con i Lepa senza queste due garanzie il più debole avrebbe un minor beneficio e quindi diseguali opportunità di cura. Allora come soddisfare le condizioni poste da Rawls? Per assicurare il maggior beneficio ai più deboli bisognerebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno, cioè nei loro confronti il sistema dovrebbe essere universale e solidale, ma i Lepa non sono più Lea e non danno tutto quello che serve, inoltre gli incentivi fiscali dati a chi ricorre ai fondi integrativi danneggiano la solidarietà e riducono le risorse pubbliche che finanziano i Lepa. Le pari opportunità di salute significa che al più debole bisognerebbe dare le stesse opportunità di cura del più forte. Ma se egli accede solo ai Lepa come fa ad avere gratuitamente pari opportunità di cura? Quindi l’unica strada che vedo per rispettare le condizioni di Rawls è maggiore equità non minore iniquità. Cioè un nuovo equilibrio tra morale e economia quello che nei miei libri ho cercato di tradurre con l’idea di “compossibilità”. Si tratta di rimuovere le antinomie tra morale e economia non di accettarle rassegnati e per farlo si deve cambiare profondamente il sistema “nel” sistema. Ma anche dotarci di un nuovo apparato concettuale. Perché continuare a parlare di “priorità” anziché di “primalità” cioè di qualità che non possono mancare in una buona assistenza? Perché usare il termine “selettivo” e non “discretivo”, cioè differenti offerte di cura ponderate in ragione di differenti bisogni e situazioni di cura. Mi si obietterà “come la mettiamo con la sostenibilità”. 
 
A parte le 5 R  me la cavo con una battuta: la moralità è di gran lunga più sostenibile economicamente dell’immoralità, essa può rifinanziare il sistema sanitario azzerando i costi davvero insostenibili dell’immoralità. Se per immoralità intendiamo in senso lato tutto quanto è semplicemente disonesto, scorretto, inadeguato, non pertinente, disorganizzato, arretrato, disfunzionale, incongruo, sprecato, si può cambiare la sanità senza per questo prendersela con i poveri cristi. Trovo francamente poco cristiano questo modo di pensare. I problemi di sostenibilità non sono causati dall’universalismo ma dal pensiero debole soprattutto degli economisti che nella crisi non sono in grado di definire un’idea più giusta di giustizia. Ma forse non tocca a loro, no?
 
Ivan Cavicchi

19 dicembre 2012
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