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Psn, Bianco (Fnomceo): “La parola d’ordine è flessibilità”


Fnomceo aveva già lanciato l’allarme sulla futura carenza di medici, previsione oggi confermata dal Piano sanitario nazionale. Ma quali possono essere le soluzioni secondo il presidente della Federazione degli Ordini?

09 OTT - Presidente Bianco, la bozza del nuovo Piano sanitario nazionale rimarca come, da qua al 2018, ci sarà una carenza di circa 22 mila medici. È un tema che da tempo la Fnomceo ha sollevato, ma in che direzione si dovrebbe intervenire?
 
Facendo dei semplici calcoli attuariali, a condizioni organizzative invariate, i nostri calcoli danno cifre ancora più allarmanti, che arrivano fino a 60-70 mila professionisti in meno, arrivando fino al 2025. Bisogna considerare però considerare che, invece, ci sono molti elementi da considerare nella definizione del futuro fabbisogno, a cominciare dalla valutazione che i dati di oggi riflettono, anche, il boom professionale degli anni ’70 che ha portato ad una grande crescita numerica dei medici, mentre i dati per il futuro dovranno essere definiti anche sulla base dei cambiamenti indispensabili dei modelli organizzativi.
In ogni caso, è chiaro che occorre trovare il modo di governare questa tendenza, trovando quegli strumenti, quelle procedure, quegli indicatori che ci consentano di calibrare i nuovi fabbisogni e programmare i professionisti per quanti davvero ne servono. Anche perché il percorso di formazione di un medico richiede almeno 10-12 anni.
 
Ma chi dovrebbe occuparsi della programmazione?
Dovrebbe essere fatta, ed in parte è già così, a livello centrale dal ministero della Salute, che in questo caso funziona da collettore dei bisogni delle Regioni, cui poi si aggiunge l’Università e anche la Federazione degli Ordini. Il problema però è che intorno al tavolo che riunisce questi soggetti si rischia di parlare linguaggi diversi. Le criticità sono diverse: non tutte le Regioni sono in grado di determinare il loro fabbisogno, sia per quanto riguarda l’accesso ai corsi di laurea che per quanto riguarda l’accesso alle specialità; la formazione ha un percorso definito in ambito universitario, che però non è più sufficiente.
 
Fino ad oggi, di fatto, è stata l’Università a determinare anche quantitativamente gli accessi, con una logica molto autoreferenziale. Si può pensare di superare tutto questo?
Più che si può, si deve. Mentre si interviene sulla programmazione del fabbisogno occorre anche rivedere i percorsi formativi sulla base delle mutate esigenze assistenziali e organizzative. Oggi la “costruzione” di un professionista richiede molti livelli di competenza, che vanno dal sapere al fare al saper fare. In questo percorso l’Università può essere affiancata da altri soggetti, a cominciare dal Ssn.
Anche perché, malgrado si chiamino Facoltà di Medicina e Chirurgia, oggi la maggior parte degli studenti e dei laureati sono in realtà appartenenti ad una delle molte professioni sanitarie, a cominciare dagli infermieri.
Bisogna trovate un percorso formativo flessibile, da parte di tutti i soggetti coinvolti perché la formazione assorbe tante risorse: le speranze degli studenti e delle famiglie, ma anche tante risorse economiche della collettività. Questa è la ragione della nostra preoccupazione e del nostro allarme
 
Cosa significa “rendere più flessibile la formazione”?
Bisogna costruire percorsi capaci di superare le rigidità. Nel caso si realizzi la necessità di una mobilità all’interno di un’azienda, il percorso di formazione di uno specialista dovrebbe avere in sé quel tratto comune delle scienze mediche che consentano, ad esempio, a un endocrinologo di andare a fare il cardiologo. Una possibilità che già esiste, ma sulla quale si può ulteriormente lavorare, coniugando flessibilità della formazione a flessibilità delle competenze.

09 ottobre 2010
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