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La “livella”, per il Covid, non esiste

di Ettore Jorio

01 FEB - Gentile Direttore,
ho il Covid da due giorni, certificato da due tamponi di diversa species, molto probabilmente contratto nel corso dei recenti esami tenuti in presenza.
Devo dire che una tale (ancora) così breve e non entusiasmante esperienza, di quasi esilio, sta rappresentando per me un’ulteriore e triste lezione di vita.
 
Sarò, pertanto: bloccato in casa per sette giorni; tenuto lontano dai miei collaboratori di un secolo; allontanato dai problemi di salute pubblica che mi assillano ma che amerei tuttavia risolvere il più presto possibile, grazie all’opportunità offertami di esercitare il ruolo del consulente personale del neo-presidente della Regione Calabria; distante dai miei affetti, soprattutto dai miei nipoti, che tutti sappiamo quanto contano per un nonno (Draghi, docet).
Questi sono gli effetti di questa ingombrante e diffusa patologia, che prima o poi visiterà (ahinoi!) tutti, considerata la sua invasività di massa, che pare incontenibile.
 
Di tutto ciò, la cosa che più mi tedia non è l’obbligo di isolamento d’ufficio, fisico e sociale, è bensì la modalità del suo vissuto. Soprattutto se messa in relazione alle sue caratteristiche e alle modalità che, se analizzate in orizzontale, mettono in rilievo forti discriminazioni e diseguaglianze, pericolose per consolidare l’unità nazionale.
 
Al riguardo, pensavo stanotte proprio a questo. Alle comodità di cui godo da affetto da Covid, sia in termini di spazio che di assistenza percepita, messo a confronto con le condizioni altrui. Da quelle “godute” a chi è più sofferente di me, da chi è costretto a vivere nelle povertà finanziarie e strutturale, da chi è solo per difetto delle assistenze mediche che gli sarebbero dovute a mente della Costituzione, dalle convenzioni per la assistenza primaria messe a disposizione dal servizio sanitario nazionale, dalle (dis)attenzioni istituzionali, spesso per eccessivo carico della domanda, delle aziende della salute, delle Usca e giù di lì.
 
A tutto questo si aggiunge, come male estremo, che sono in tanti, in troppi, a “godere” di spazi domestici molto estremi, limitati ad assicurare le minime condizioni di salubrità, e spesso nemmeno quelle. Conosciamo tutti i quartieri popolari delle città, ove è davvero difficile accettare il quotidiano in condizioni di normalità e persino di civiltà e consentire isolamenti appropriati, indispensabili per evitare che il corpo ospite del Covid si trasformi in aspersorio malefico all’ingrosso.
 
Tante le famiglie costrette a vivere in pochi metri quadrati spesso stipati a tal punto da rendere difficile ogni genere di riservatezza. Da qui, è facile immaginare cosa succede in termini di misure cautelative del contagio.
 
Fatte queste considerazioni, è facile immaginare lo stato di tristezza, vissuto da un eletto dal fato, guardando dalla propria finestra ipotetica cosa succede fuori.
 
Persone umane costrette a vivere un ulteriore disagio, spesso vitale, nel disagio generale e generico, con licenza di non salvaguardare la salubrità dei conviventi, frequentatori dei medesimi servizi igienici, e costretti per l’occasione a dormire anche nelle cucine e nei garage.
 
Quindi, oltre parlare da nonno per i propri nipoti sarebbe il caso che tutti, proprio tutti (Premier in primis) cominciassero a pensare e decidere come nonni e papà degli altri, prioritariamente di quelli che non godono delle mie e altrui fortune.
 
La LIVELLA in tempi di Covid (e non solo) dovrebbe insegnarci qualcosa in più in termini di solidarietà reale e di uguaglianza.
 
Ettore Jorio
Università della Calabria
 


01 febbraio 2022
© Riproduzione riservata

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