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Pronto soccorso, codici bianchi agli infermieri? Un percorso con molte insidie

di Giuseppe Belleri

01 MAR -

Gentile Direttore,
il problema degli accessi impropri al Pronto Soccorso assilla gli ospedali. La MG viene biasimata per non fare da filtro all’iperafflusso dei cosiddetti “codici minori”, in particolare quelli bianchi che secondo le stime sarebbero per il 90% inappropriati. Per arginare il fenomeno prima l’Emilia Romana e poi il Veneto, come riportato su QS dal presidente dell’ordine veneziano, propongo di affidare i casi “apparentemente semplici” ad un percorso infermieristico, by-passando il “passaggio formale” della valutazione medica.

Problemi e perplessità non mancano, a partire dalla quantificazione dei codici bianchi, che registra una notevole variabilità da una regione all’altra, compresa tra il 50% sul totale e percentuali inferiori al 5% in relazione alla diversa attribuzione dell’urgenza lieve (codice verde) piuttosto che la non urgenza (codice bianco).

Oltre alla variabilità quantitativa regionale ne esiste una qualitativa nella gestione dei codici minori. In teoria il codice bianco è sinonimo di condizione non urgente che non necessita quindi di ulteriori prestazioni diagnostiche; di conseguenza il caso dovrebbe tornare sul territorio, previa raccolta anamnestica, osservazione e valutazione medica, cioè con un approccio simile a quello attuato “a mani nude” dal medico in sede extra ospedaliera.

Il percorso infermieristico proposto introduce un’ulteriore semplificazione, by-passando la valutazione medica ed indirettamente anche ulteriori indagini ai fini della chiusura del caso, tranne alcune eccezioni. Eppure, come ha documentato una indagine condotta proprio in Veneto, all’81% dei codici bianchi e al 90% di quelli verdi vengono prescritti ed eseguiti in PS esami ematici, radiologici, strumentali e consulenze specialistiche, segno che il quadro clinico non è chiaro, tanto da indurre approfondimenti per ridurre l’incertezza e il rischio di accuse di malapratica;per quale motivo di fronte a casi apparentemente semplici vengono eseguiti accertamenti, a rischio di inappropriatezza al pari dell’accesso improprio del “codice bianco”? La motivazione “difensiva” in un contesto problematico come il PS è quella che sorge spontanea, ma c’è anche dell’altro.

Il codice cromatico definitivo viene attribuito di norma al termine dell’iter clinico in PS e non dopo la valutazione di triage all’ingresso, in caso di accesso spontaneo o suggerito da un medico. A seguito degli accertamenti prescritti, in apparente contrasto con la non urgenza cromatica, possono essere riclassificati alcuni codici minori, sia nel senso dell’aggravamento (dal bianco al verde/giallo) sia in direzione opposta (dal verde al bianco). Si tratta di un approccio bayesiano “naturale”, metodologicamente giustificato dall’acquisizione di nuove informazioni volte a incrementare o ridurre la probabilità a priori di un’ipotesi, fino alla smentita o conferma della rivalutazione probabilistica a posteriori.

Questa pratica si basa sulla “fisiologica” valutazione ex post, correttiva di quella cromatica ex ante, grazie alla quale si smaschera il 10% di “falsi” codici bianchi annidati tra i soggetti categorizzati all’ingresso come non urgenti e all’uscita riclassificati con un codice colore appropriato. Tuttavia se si giudica l’invio del paziente con il metro della valutazione finale si cade in un noto bias, quello del senno di poi grazie al quale è facile bollare di inappropriatezza l’accesso deciso sul territorio dal medico “alla cieca”, ovvero privo delle informazioni dirimenti acquisite con l’iter in PS (l’asimmetria informativa è uno dei motivi del fallimento del mercato in sanità e della possibilità cognitiva di ridurre l’incertezza, mentre nella “teoria della giustizia” del filosofo John Rawls il “velo di ignoranza” caratterizza la posizione originaria utile per scelte sociali eque).

I medici pratici sanno per esperienza quanto può essere infida la prima impressione di un caso, per il rischio di incappare in alcuni bias cognitivi correlati ad altrettante euristiche, che scattano a mo’ di riflessi per semplificare il giudizio probabilistico: della disponibilità alla rappresentatività, dall’effetto alone alla tendenza alla conferma, dalla ricerca soddisfatta alla chiusura anticipata del caso, dall’ancoraggio ai falsi negativi.

La prima “impressione” prognostica di sintomi aspecifici, vaghi, atipici e inusuali in periodi ad alta prevalenza di disturbi comuni, è delicata e rischiosa come testimoniano le cronache sanitarie di presunti episodi errori medici per la sottovalutazione di casi apparentemente banali, che a posteriori si rivelano la punta dell’iceberg di un problema più grave, destinato ad emergere con chiari sintomi in tempi successivi.

Per sventare queste trappole serve una costante vigilanza autocritica, riflessiva e meta-cognitiva a partire dalla risorsa tempo e dall’acquisizione di informazioni per confermare o invalidare la prima impressione, specie se appare scontata. Queste dinamiche devono essere ben ponderate in relazione ai rischi medico-legali del task shifting dell’approccio in PS, da compito medico ad impegno infermieristico esclusivo. Sapranno gli infermieri separare il grano dal loglio, senza ricorrere ad accertamenti diagnostici di routine, ovvero intercettando gli insidiosi “falsi” codici bianchi, “semplici” solo in apparenza? Perché, come ammoniva Cartesio, “l’errore consiste semplicemente nel fatto che non sembra essere tale”.

Dott. Giuseppe Belleri

Ex MMG - Brescia



01 marzo 2023
© Riproduzione riservata

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