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Assoluzioni per infermità mentale degli autori di reati, non si può iper-semplificare il tema

di Antonio Amatulli

01 FEB - Gentile Direttore,
sul suo Quotidiano è apparsa il 31 gennaio una lettera di due colleghi toscani (Di Croce, Naim) che ritengono che sia necessario “limitare le assoluzioni per infermità di mente nei casi di pazienti autori di reati”. Detto che mi pare per lo meno irrituale una tale richiesta al giudice che procede, le motivazioni potrebbero avere un facile appeal nel mondo degli operatori della salute mentale, sovraccaricati dalla complessità del lavoro nella forbice tra aumento della domanda e scarsità di risorse umane. Ma ogni slogan ha un limite, ed è quello di iper-semplificare a favore di una ipotesi così non dimostrata, ma di immediato e confortevole consumo.

Premessa: sul tema lo scenario attuale è complesso, ed è forte la pressione sul personale della psichiatria, questo è indubbio. Ma per potere affrontare situazioni complesse, anche il pensiero lo deve essere.

L’autorità giudiziaria, iniziando a citare, in realtà non delega (apertamente) allo psichiatra compiti di igiene sociale: siamo noi che diamo poi corpo alle sollecitazioni che ci arrivano dall’esterno, potendo quindi (almeno in parte) sottrarci ai desideri di “controllo” della medesima. La palla, quindi, sta anche nella nostra metà campo. Ma dobbiamo saperla giocare. Meglio saperlo.

Poi, la famosa sentenza delle sezioni unite della Cassazione “Raso” non può essere riassunta in modo così approssimativo. In sintesi, essa, dopo che l’anno prima la Cassazione (sentenza 433 del 2004) era intervenuta su remissione del Tribunale di Ancona che aveva sostenuto che la base scientifica medica cui la giurisprudenza si rifaceva per la eventuale applicazione degli artt. 85, 88, 89, 90 c.p. non fosse ormai più sostenibile e probabilmente obsoleta, in quanto legata a una interpretazione puramente nosografica e monodimensionale delle patologie psichiche, e quindi (anche) in contrasto con l’art 3 cost., si fa doveroso e richiesto carico di una aggiornamento della situazione attuale delle scienze psichiatriche e della loro sistematizzazione dei disturbi psichici, pervenendo alla necessità di superare interpretazioni strettamente nosografiche per una dimensione multideterminata e bio-psico-sociale del disturbo mentale; e lo fa utilizzando il nostro testo di riferimento (piaccia o meno), il DSM-IV, arrivando a concludere, appunto, che ormai la scienza medica utilizza una lettura multidimensionale delle patologie psichiatriche, e il diritto a questo si deve rifare (è qui che “scopre” la esistenza dei Disturbi di Personalità, per una grossolana sintesi) anche in tema di imputabilità. Inoltre, mette in evidenza come, testi alla mano (sintomi, segni, alterazione del rapporto di realtà), i disturbi di personalità, se di evidente gravità e incidenti al momento del compimento del fatto di reato (sintetizzo molto), possono rilevare per la clausola di non imputabilità. È una sentenza complessa, rigorosa, che va letta con attenzione.

Poi, sempre seguendo almeno in parte la lettera dei colleghi toscani, la legge 81 con i suoi meriti e limiti di work-in-progress (cui ancora però non segue un adeguato progress…e siamo d’accordo) non sostituisce gli OPG con le REMS. Semplificazione assolutamente fuorviante, dove la medesima legge ha determinato, per dirne una, la rivoluzione del limite temporale alla misura di sicurezza detentiva. E mi pare un grande passo avanti, o no? Se poi ci vogliamo lamentare che rispetto a una quindicina di anni fa le misure non detentive siano passate dal 10 al 90% di tutte le misure, più o meno, allora qualche nostro problemino rispetto ai diritti individuali delle persone (ancorché autrici di reati) potrebbe emergere.

Ragioni di spazio impediscono di commentare altri punti a mio parere discutibili della lettera, ma basta citare la scorciatoia a effetto che dice che “la responsabilità è terapeutica”. Voglio ricordare il rispetto che si deve alla possibilità di agire, da parte dei pazienti, i diversi livelli di responsabilità a loro possibili, e ancora alla responsabilità dei servizi di comprendere quali essi siano e di adeguatamente proteggerli (e non delegare al singolo paziente la capacità di non perdersi nei limiti artificiosamente estesi di una responsabilità - di autodeterminarsi – magari non gestibile, con le relative possibili conseguenze forse, ma dico forse, in parte dovuta alla spinta a spogliarci di almeno una piccola parte delle grandi responsabilità derivanti dl nostro agire professionale).

Una conclusione in due parole?

Un esame di coscienza, da parte nostra, degli aspetti controtransferali che spingono taluni a reclamare quella che è una vera e propria finzione giuridica di una responsabilità in assenza di capacità di comprendere e gestire impulsi contrastanti;

- la consapevolezza che l’artificiosa abolizione del vizio di mente implica il disconoscimento in radice del ruolo e del sapere psichiatrico (che conosce le malattie, i loro sintomi, le loro conseguenze anche sul funzionamento dell’Io);

- l’informazione che l’infermità, oltre ad avere una funzione garantista, permette di rispettare il principio di colpevolezza costituzionalmente orientato, obbligato al coefficiente soggettivo, cioè alla valutazione delle condizioni psicologiche necessarie per fondare l’imputazione personale (responsabilità penale personale) per muovere un rimprovero nei confronti di un individuo per non aver tenuto, pur potendo, un comportamento conforme alla legge;

- comprendere che in caso abolizione degli art. 88 e 89 del codice penale la fase esecutiva si svolgerebbe in ambito (della esecuzione) penale e non nel sistema sanitario come ora, con evidente pregiudizio delle garanzie rispetto ai diritti individuali ora comunque presenti;

- prendere atto della presenza del problema della violenza in relazione al nostro mestiere (senza posizioni ideologiche) e definire una differenziazione tra REMS ad alta e a bassa protezione;

- presidiare il prossimo intervento del legislatore che dovrà colmare il vuoto legislativo evidenziato dalla sentenza della cassazione n. 22 del 2022, con il conseguente intervento del Ministro della giustizia nel sistema delle REMS;

- incrementare e migliorare i rapporti e la comunicazione tra DSM e magistratura di sorveglianza, già più elastica in relazione alle necessità cliniche differenziate e plurali dei pazienti;

- lavorare per una revisione del sistema delle perizie (sintesi assoluta, per ragioni di spazio);

Piuttosto, un lavoro di rimodellamento per migliorare il bilanciamento tra necessità di cura e di tutela/sicurezza (ambedue ineludibili, non lo dice il sottoscritto ma la Corte di cassazione) potrebbe prevedere una modifica dei profili giuridici delle misure di sicurezza, per adeguarle alle diverse necessità terapeutiche, e una riflessione, ma qui non si farà per ragioni di spazio, sulle misure di tipo provvisorio. Oppure, come in altre sedi proposto, legare la possibilità di una misura di sicurezza a un livello minimo di pena comminabile.

Spero che i tanti operatori che lavorano con fatica tutti i giorni possano riflettere bene sulle ragioni e sulla friabilità di auspicate scorciatoie (lessicali quanto organizzative) che, in parte inattuabili in parte anticostituzionali, portano a mio parere il vulnus neonatale di un deficit informativo. Sono comunque stimoli che ci aiutano tutti a migliorare quei percorsi clinici, quanto giudiziari e legislativi, e infine mentali, che ci avvicinino al completamento della riforma iniziata con la legge 81, e che deve essere portato a compimento nel rispetto dei diritti alla sicurezza degli operatori e contemporaneamente di quelli alla cura e alla tutela migliore possibile, nell’ambito dei diritti individuali, per i pazienti autori di reato.

Antonio Amatulli
Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze
ASST Brianza (MB)

01 febbraio 2024
© Riproduzione riservata

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