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Quando il senso di appartenenza alla comunità vacilla

di Claudia Zamin

13 MAR -

Gentile direttore,
il Libro Azzurro docet: ogni territorio è unico, ha una sua soggettività, risorse e vincoli; per tali ragioni è importante precisare che quanto esposto di seguito è relativo all’esperienza e al punto di vista di una persona che vive e lavora in Regione Lombardia.

Mi sono chiesta più volte perché in questa regione, a differenza di altre o delle normative nazionali (si veda ad esempio la pagina del Ministero della Salute), si parli di Casa di Comunità e non Casa della Comunità; questa “apparente banale differenza” di preposizione in realtà va ben oltre un cavillo da Accademia della Crusca.

La casa è della comunità perché appartiene ad essa, in quanto dovrebbe essere pensata, creata, abitata, usata (nel senso più nobile del termine) insieme a coloro che risiedono in quel particolare territorio. Cittadini e operatori che co-costruiscono “comunità di pratiche” a partire da bisogni e risorse (materiali e non) in una logica proattiva eco-biopsicosociale.

Probabilmente in Lombardia potrebbero non esistere mai le Case della Comunità almeno per due ragioni.

Pare esservi una sorta di “patto silenzioso” tra le istituzioni e i cittadini - primo aspetto – mentre il secondo riguarda l’espansione semantica della parola comunità.

Partiamo dal primo punto.

Le istituzioni, ponendosi come erogatrici di servizi, all’interno di una logica di “salute come profitto” con una gerarchia di potere - per cui “sappiamo noi” cosa è meglio - difficilmente rinunceranno all’autonomia regionale legata alla sanità e ai soldi da amministrare, dove la triste verità è che conviene avere un privato accreditato (o non) che investa sulla malattia e non sulla salute. La malattia riempie celermente le tasche, “assicura il potere” al contrario, una “comunità in salute” rappresenta un investimento a lungo termine, non immediato, e che richiede inevitabilmente un passaggio culturale da parte dei cittadini che, al pari delle istituzioni, ragionano abitualmente con premesse paradigmatiche di malattia e non di salute. Un approccio salutogenico implica dialogare con cittadini attivi, persone “empowered” e la health literacy mal si concilia con le gerarchie di potere.

Ecco che entra in gioco anche l’altro attore del patto silenzioso: il cittadino lombardo.

Se in età da lavoro, tendenzialmente ha poco tempo perché deve appunto “produrre”, andare a giocare a padel, uscire a cena o fare l’happy hour. Tendenzialmente sta ancora bene e se proprio dovesse avere una necessità va in pronto soccorso (generalmente tachicardia da attacco di panico o stress “ma non si sa mai... facciamoci fare un ECG velocemente”) o possiede una assicurazione privata. Invece, se è un cittadino in età da pensione è abituato a pensare che tanto, comunque vada, alla fine c’è il sistema che qualcosa farà, insomma una sorta di delega del cittadino e un condono: “sono diabetico ma la mia regione mi consente di fare tutti i controlli del caso” e c’è di più. Essendo una malattia cronica la normativa riconosce l’esenzione. Talvolta succede che sia sempre lo stesso cittadino che, appena può, evita la fattura con il libero professionista – chiunque sia (sanitari compresi) - perché le tasse le paga già con la pensione con cui magari aiuta anche il figlio disoccupato che a sua volta lavora in nero. Insomma, par vero anche al nord il detto siciliano «Futti futti, che Dio perdona a tutti».

Vediamo ora più da vicino alcuni aspetti sociologici e come questi si declinano nella semantica “comunità”.

Molto sommariamente, e me ne scuso, i cittadini non attivi sul piano professionale rientrano nella cosiddetta generazione dei “baby boomers” (1946 – 1964) sovrapponendosi alla “generazione silenziosa” (1928 -1945) mentre quelli attivi sul piano professionale rappresentano la “generazione X” (1965 – 1980) e “generazione Y” o millenials (1981 – 1996). In queste due generazioni la parola “comunità” sembra possedere ancora un una sua ontologia storica di comunità intesa come legami di appartenenza, vuoi per pretendere dagli altri, “fregarli, usarli quando ti servono, se servono, vuoi per disinteressartene. In ogni caso, in queste generazioni si dà per scontato l’esistenza di un SSN universalistico per la comunità.

Sorge spontaneo chiedersi cosa accada nelle generazioni successive, dove incontriamo i giovani, la cosiddetta generazione Z (1997 – 2012), quella degli zoomers, post Millenials o i-Generation, quella dove i più grandi, oggi hanno circa 27 anni. Ha ancora senso parlare di comunità? Quale comunità? Quella in cui negli anni ’80 era riservata ai tossicodipendenti? Oppure la comunità dei social? Perché oggi per i giovani le associazioni libere sulla parola comunità molto probabilmente vanno più in queste direzioni e meno verso il senso di appartenenza a legami sociali di natura reale. Non è intenzione di chi scrive offrire giudizi di merito sul passato o sul futuro ma proporre solo un dibattito, una interrogazione collettiva sul termine comunità oggi. In altre parole, dovremmo chiederci quale sia il senso della parola comunità in una società molto complessa rispetto al passato, in un mondo post COVID dove ne “saremmo dovuti uscire migliori” e invece abbiamo due guerre dietro le porte.

Siamo in una realtà piena di relazioni virtuali e di tecnologie che ci hanno letteralmente salvato durante la pandemia: come saremmo psichicamente sopravvissuti senza le videochiamate e i social durante i lockdown? Attualmente siamo pieni di “contatti” sui nostri vari dispositivi; eppure, pare che le persone si sentano molto più sole e che per trovare un fidanzato si debba passare attraverso “l’applicazione”. I giovani giungono a elevati livelli di istruzione rispetto al passato (non è detto però che sappiano usare il congiuntivo, conoscano la storia e sviluppino un senso critico), parlano più lingue, sono generosi, sensibili ai temi ambientali; spesso sono interessati al prossimo ma non sanno bene come incontrarlo al di fuori dei social. Stare nel mondo on line della connessione sino a giungere al metaverso può farci correre il rischio di disaffezionarci dall’ABC delle relazioni reali.

Ecco la seconda ragione della fatica dell’affermazione delle Case della Comunità: oggi questo termine, la comunità, pare risultare quasi obsoleto così nell’accezione che ha avuto per le generazioni precedenti. Soffriamo della mancanza della relazione reale dell’homo sapiens sapiens con i suoi simili e del senso di appartenenza che ci porta a preoccuparci realmente per gli altri. Per questo tra i giovani “la comunità” più facilmente si associa, alla comunità dei social e molto meno alla comunità reale delle persone. Quando si ha un problema reale/pratico non si sa a chi chiedere aiuto, ormai quasi neanche più al vicino di casa perché a Milano, spesso, non lo si conosce.

Forse, l’unica esperienza reale di comunità fondata su relazioni reali che la i-Generation potrebbe ancora fare è quella con la scuola: un ambito di possibilità per tutti al di là della religione, del sesso e delle provenienze geografiche. Ma anche la scuola soffre e molto, non perché manchino bravi insegnanti o siano pagati poco (problemi certamente reali e non affrontati) ma perché pare venir meno il riconoscimento del valore di questo luogo dove un genitore, un tempo affidava i propri figli ad altri adulti con cui stringeva un patto: farsi insieme garanti della crescita dei ragazzi. Purtroppo, i fatti di cronaca anche recenti raccontano di genitori che aggrediscono fisicamente e verbalmente i professori, autorizzando di conseguenza i figli a compiere altrettante gesta epiche. Anche uno dei pochi luoghi dove era possibile per tutti fare esperienza dell’appartenenza alla comunità non è più una certezza.

La mancanza di un senso di appartenenza alle altre persone reali, la condivisione dei bisogni, dei diritti e dei doveri che regolano il vivere civile hanno messo in crisi la parola comunità almeno così come l’hanno sperimentata le generazioni precedenti durante il ‘900. La conclusione di questo scritto potrebbe indirizzarsi verso una visione pessimistica del mondo e del genere umano come peraltro già proposto da alcuni letterati o figure importanti della storia.

Tuttavia, siamo nel periodo della complessità ed è importante ragionare in termini complessi, studiare i sistemi complessi, come ricorda sempre il fisico - premio Nobel - Giorgio Parisi. Allora non si deve dimenticare che la natura dell’uomo è e rimane relazionale. Per quanto possano mutare nel corso dei secoli tante cose, esterne ed interne, l’essenza dell’uomo è la relazione: l’essere umano per vivere bene nelle città metropolitane contemporanee o sopravvivere nella giungla del passato dovrebbe riconoscere, anche a fatica, che è la relazione con l’altro - reale, defunto o virtuale che garantisce il suo stare nel mondo. Oggi abbiamo “guadagnato” la possibilità del “virtuale”, teniamocela ben stretta senza pretesa di esclusività ma in armonia con le sue altre declinazioni. (altro reale/altro defunto); essa è un valore aggiunto all’interno della parola comunità, ne espande in senso positivo il suo significato, così come l’abbiamo sempre conosciuto.

Il cum – munus riguarda sia il mettere insieme, condividere qualcosa - in questa accezione si sottolinea quel "qualcosa con" - sia il munus, cioè il dono reciproco. La comunità contiene nel suo significato il riferimento alla mancanza di qualcosa (e non all'avere) che dobbiamo agli altri e viceversa. La comunità è fondata da ciascuno di noi in relazione all’altro, ciascuno per vivere deve riconoscere un pezzo che gli manca e che può trovare nell’altro. Nella crescita di un bambino il primo luogo dove si impara a dire “noi” è la relazione con le figure significative all’interno dei legami familiari, poi con gli amici e la prima forma di comunità che si sperimenta è la scuola. Forse dobbiamo rifondare un patto a partire da qui e non dobbiamo trascurarlo nel rifondare le Cure Primarie in un un’ottica di Primary Health Care, ovvero ripensare “la cura” in un’ottica salutogenica che territorializza i servizi, li costruisce e li pensa insieme ai cittadini, così come il Libro Azzurro ci incoraggia, perché sì, è possibile farlo, non è utopia.

Affinché in Lombardia, ma forse anche in tante altre regioni, si possano costituire le Case della Comunità è necessario un cambio paradigmatico verso il concetto di salute e contestualmente la riappropriazione del senso di appartenenza ai legami reali, simbolici e virtuali che contraddistinguono l’essere umano. Credo che Gaber intendesse questo quando conclude nella “Canzone dell’appartenenza”: “sarei certo di poter cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”.

Claudia Zamin

Psicologo – Psicoterapeuta
Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie in Italia



13 marzo 2024
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