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A chi giova una classe medica frustrata e in lotta?

di Tiziana Mattiazzi

06 DIC - Gentile direttore,
la domanda posta dalle pagine del suo giornale dalla dottoressa Mancin, ci fa letteralmente sobbalzare sulla sedia, ci prende per la collottola e ci scaraventa nell’agone! La domanda è questa: fino a che punto devo fare il medico in scienza e coscienza e fino a che punto devo obbedire alla legge? La domanda è tanto genuina quanto inquietante ed evidenzia una tensione degli operatori della sanità che sembra consistere in una questione morale.
 
Ma quale Paese è quello in cui il medico deve scegliere se essere “onesto” nei confronti della legge o coerente con l’impegno morale assunto con la decisione di fare il medico? Questa dicotomia è allarmante proprio perché non contiene soluzione di bene. Per uscirne è necessario sciogliere l’opposizione.

La questione posta riporta alla memoria l’esperienza di un altro medico, forse di altri tempi o forse no. Nell’Algeria colonizzata dai francesi il dottor Frantz Fanon (1925-1961) ingaggiò una battaglia contro il potere coloniale cieco al contesto e rigidamente annichilente del reale, la sua denuncia di allora ha ancora qualcosa da insegnarci?

“La funzione di una struttura sociale è fondare delle istituzioni che abbiano a cuore il destino dell’uomo. Una società che spinge i suoi membri a soluzioni disperate è una società che non funziona, una società da cambiare. E’ dovere del cittadino dirlo. Qui non c’è morale professionale che tenga, né solidarietà di classe, o desiderio di lavare i panni sporchi in famiglia. Le esigenze del pensiero non tollerano alcuna mistificazione pseudonazionale.”

Così come la Lettera al ministro residente di Fanon (come tutta la sua opera di rivoluzione della psichiatria) ha potuto ispirare Basaglia (le dimissioni di Fanon servirono implicitamente da modello per le dimissioni dell’equipe di Gorizia) a noi oggi può ancora mostrare qualcosa?
 
Egli scioglie l’opposizione restituendo l’incarico governativo per sottrarsi a qualsiasi forma di complicità che sentiva come intollerabile. Fanon stretto nella tenaglia della questione morale, che vedeva da una parte la fedeltà al suo essere medico e dall’altra l’obbedienza alla legge, sceglie di andarsene per rimanere medico. Stiamo parlando dell’ Algeria del secondo dopoguerra. Credevamo che fossero passati settant’anni. Pensavamo di vivere in Occidente. Eravamo sicuri che anche il potere avesse assimilato un certo progresso.

E’ ormai conclamato che il malessere della classe medica ha raggiunto livelli allarmanti, il principio dell’alleanza terapeutica andrebbe pensato in andata e ritorno, in un circolo virtuoso: i medici veneti mettono in campo uno sciopero imponente nei tempi e nei modi (e mi dicono anche nelle adesioni) a chiedere coerenza e rispetto, i medici pugliesi scendono in piazza a chiedere libertà e autonomia, ma “cui prodest?” - chiederebbe ancora una volta la Medea di Seneca. A chi giova una classe medica frustrata e in lotta? Chi beneficia del clima di tensione che caratterizza l’ambito sanitario in questi nostri tempi?

La proposta del prof. Cavicchi (che io ritengo indifferibile, quasi urgente) di una rifondazione teorica – che egli chiama neo-ippocratismo - che parta dalle necessità del quotidiano, ispirata dalla e alla complessità, dovrà necessariamente coinvolgere le donne e gli uomini che esercitano l’arte medica. Arte!
 
Ovvero tecnica (scienza e conoscenza) più il talento inventivo e la capacità di operare. Il termine arte porta in sé tutta la peculiarità dell’umano, tutta quella carica che non si impara dai manuali di medicina, tutta la specificità che fa progredire le scienze e la tecnica, ma dalle quali si distingue, perché risulta essere molto più di tutto quello messo insieme. Credo che questo sia uno dei motivi della forte irritazione della classe medica: il voler catturare l’arte dentro una stretta rete di regole e regolette.
 
Di questi argomenti abbiamo discusso a lungo a Venezia nei nostri appuntamenti dei mercoledì filosofici e nei convegni conclusivi, arrivando a comprendere che la medicina automatica ci porta dritto dentro lo spettro della disumanizzazione, la medicina amministrata sarà svolta perfettamente dall’Automa incaricato, applicherà algoritmi e formule perfette, guarirà le malattie (forse!), ma chi si occuperà delle persone? Dice Fanon: “ Gli attacchi continui ai valori più elementari non si accordano con gli intenti che informano l’esistenza individuale. Da molti mesi la mia coscienza si dibatte in conflitti senza via d’uscita. La conclusione è la volontà di non disperare dell’uomo, vale a dire di me stesso.”

La dottoressa Mancin invoca la discesa in campo di chi si occupa di medicina dal versante del diritto, della filosofia o della sociologia, lei ha perfettamente compreso che la posta in gioco è altissima e a questo punto occorre ritornare ai significati delle parole così come a quelli delle azioni, perché sa che da soli non si può operare il moto che permetta una inversione di marcia, da soli si può resistere, ma qui siamo già nella fase successiva quella della ricostruzione.

Solo lasciando un po’ di “spazio” aperto nel pensiero e nell’azione  - non è una proposta ingenua, i pericoli sono molti! - un orizzonte proteso che ispiri e che faccia posto ai raggi aurorali, potremmo sciogliere l’opposizione creata dal dilemma iniziale, e guarire dall’atavica quanto perniciosa ottusità di chi pretende di trattenere il mare con una rete.

Tiziana Mattiazzi
Filosofa 

06 dicembre 2017
© Riproduzione riservata

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