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Se potessi, sceglierei ancora di essere psichiatra

di Gemma Brandi

28 OTT - Gentile Direttore,
una mattina di quarantaquattro anni or sono mi laureavo in Medicina e Chirurgia. Non sapevo ancora quale strada avrei scelto e, a differenza dei miei colleghi dalle idee chiare, mi sarei presa un anno di riflessione prima di decidere se la psichiatria avrebbe potuto interessarmi.
 
Ero inserita in un ambito di ricerca promettente, quello della Farmacologia Clinica, dove mi attendeva un posto da ricercatore come neolaureata (il professore era stato generoso e aveva detto a mio padre, quel giorno di quarantaquattro anni or sono: "Gemma di nome e di fatto!", inorgogliendolo un po', caro babbo...), ma io avevo capito che con il modo di fare ricerca in cui mi ero imbattuta, mi sarei sporcata le mani. Rifiutai l'offerta.
 
Non rimasi alla finestra a guardare. Lavorai nel primo reparto per le emergenze psichiatriche aperto a Firenze con la Legge che proprio allora era stata varata, approfittando della mia buona media che mi garantì uno dei due posti retribuiti a disposizione (cosa che fece irritare, con dubbio gusto e un atteggiamento persino minaccioso, alcuni interni di Psichiatria di buona famiglia e ottime protezioni: fu il primo incontro, per me, con la violenza del mondo del lavoro).
 
Stare accanto ai malati di mente, una cosa che la mia famiglia non avrebbe mai condiviso e compreso, fu come scoprire l'umanità profonda, la sofferenza denudata, la riconoscenza per un nonnulla, l'amicizia fin troppo a buon mercato, la semplicità del gesto fraterno di operatori curiosi e appassionati. Capii che lì si poteva fare molto di più che puntando alla eccellenza nella ricerca, cosa che mi avrebbe imposto di fare i conti con le regole di un mondo freddo e calcolatore.
 
Ero troppo calda, libera e limpida per accettarle. Mi misi quindi umilmente al lavoro, con l'ambizione di aiutare l'altro che i più pensano senza speranze. Non a caso feci poi volontariato nel primo centro per le tossicodipendenze aperto a Firenze (dove la Psichiatria era alquanto malvista: me ne andai) e misi il naso in OPG, dove mi sarei intrattenuta a lungo, passando poi al carcere.
 
Oggi mi rivedo in quell'aula universitaria, tra i miei colleghi (Lucia Zatelli, Ilaria Meucci che non c'è più, Pier Luigi Vannucchi...), in un giorno di festa e di grande incertezza che decretò l'addio per sempre alla scuola comunemente intesa, dove mi ero trovata bene in fin dei conti. Il mondo del lavoro si sarebbe rivelato assai più crudele e ingiusto, e a quella ingiustizia non mi sarei mai adattata, come alle condizioni disumane nelle quali venivano tenuti in manicomio i malati di mente.
 
Sono fiera di questo mio “disadattamento” che forse, a dirla con Michel Tournier, è piuttosto un “iperadattamento” a quanto serve alla Terra e ai suoi abitanti. I portatori di sofferenza psichica mi hanno aiutata a mantenere una posizione per niente facile, senza impazzire. Mi hanno insegnato a vivere.
Oggi, nella giornata della Salute Mentale, questo mi sono sentita di testimoniare, perché una luce nuova cali sulla eccellenza di comportamenti professionali alti in tutti i sensi, e responsabili, e curiosi, e appassionati, quando si decide di disegnare percorsi di cura per i malati di mente, più che limitarsi a dare loro una terapia.
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto


28 ottobre 2021
© Riproduzione riservata

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