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Degenerazione maculare senile. Alcuni farmaci hanno più effetti collaterali di quanti si pensi


Una valutazione reale dei rischi di complicanze sistemiche attraverso gli studi è difficile e quindi utili potrebbero essere valutazioni di altro tipo. Per esempio analizzando i ricoveri, gli accessi ai pronti soccorsi, o le certificazioni di morte così come si fa per i registri dei tumori. Lo spiegano Giovanni Staurenghi, professore Ordinario di Oftalmologia, e Mario Cigada, Oftalmologo, in un articolo pubblicato sul sito web di Aifa.

18 APR - Non sempre la rilevazione degli effetti collaterali dei farmaci (farmacovigilanza) risulta di facile esecuzione. Negli ultimi anni in oculistica sono stati introdotti farmaci biologici (anticorpi monoclonali) per il trattamento di una serie di patologie retiniche quali la forma neovascolare della degenerazione maculare senile e della miopia patologica, o l’edema maculare secondario a retinopatia diabetica o ad occlusioni vascolari retiniche. 
 
È indubbio che tali farmaci abbiano dato un contributo enorme nel trattamento di queste patologie. Ne è un esempio la riduzione della cecità legale soprattutto causata dalla degenerazione maculare senile, dopo la loro introduzione come dimostrato da valutazioni eseguite in Danimarca, in Israele e negli Stati Uniti d’America.
Tuttavia gli studi clinici di questi farmaci per la degenerazione maculare senile sia di registrazione (MARINA, ANCHOR, VIEW 1 e 2) che indipendenti (CATT, IVAN, VIBERA, MANTA, BRAMD, LUCAS, GEFAL, AXL), hanno dimostrato la presenza di effetti collaterali sistemici a cui il medico oculista non era abituato. Questo peraltro conferma quanto già scaturito dagli studi della stessa classe di anticorpi-monoclonali utilizzati in oncologia e dimostra il fatto che anche se iniettati nell’occhio vi è un’esposizione sistemica all’anticorpo.

Eventi tromboembolici cardiaci o cerebrali, perforazioni gastrointestinali, ipertensione arteriosa sono i principali effetti collaterali descritti.  Il numero non è certamente elevato ma proprio per questo i singoli studi clinici non sono dimensionati per verificare la vera incidenza.

Senza entrare nel dettaglio delle formule statistiche per la determinazione della dimensione di un campione, è evidente che per stimare la significatività statistica di una differenza nell'occorrenza degli eventi avversi tra due molecole, sia necessario un numero di osservazioni molto più alto di quante non bastino per stimare l'efficacia terapeutica degli stessi farmaci; soprattutto se gli eventi avversi sono presenti in un numero esiguo. Questo diventa ancor più difficile da valutare se si vuole verificare la differenza tra farmaci che sono stati sottoposti a studi di registrazione (Ranibizumab, Aflibercept) rispetto a quello off-label (Bevacizumab).

Infatti anche in questo caso gli studi indipendenti sono singolarmente sottodimensionati rispetto alla possibilità di valutare la sicurezza. Se prendiamo per esempio lo studio CATT un'osservazione ingenua dei dati ci dice che con  bevacizumab-Avastin abbiamo avuto 15 decessi su 598 soggetti trattati (2,5%), mentre con ranibizumab-lucentis i decessi sono stati 9 su 587 (1,5%). E' giusto dire che nel primo gruppo si ha un aumento di oltre il 50% dei decessi rispetto al primo? O è giusto dire che la differenza è solo di 6 decessi? Entrambe le affermazioni sono sbagliate, ma ci evidenziamo come, operando su numeri piccoli, non sia facile arrivare a conclusioni significative.

Aumentando il tempo di osservazione (e quindi il costo dello studio) fino a portarlo a 2 anni (CATT2) e raggruppando tutti gli eventi avversi seri si possono eseguire analisi più sofisticate del rischio di morte, come l'analisi sui logrank che mostra che, riferendosi al gruppo cui i pazienti erano assegnati al primo anno i rischi al secondo anno tendono a divergere, (Logrank P value= 0.007) anche se la differenza nel numero assoluto dei decessi continua ad essere non significativa.
Le metanalisi in questo caso possono aiutare come dimostrato dal gruppo che ha condotto lo studio IVAN attraverso due studi; il primo pubblicato utilizzando i dati degli studi CATT ed IVAN e il secondo, più completo, con i dati di tutti gli studi indipendenti di confronto, presentato ad un recente congresso sull’angiogenesi oculare svoltosi a Miami. In questo caso i circa 4000 pazienti coinvolti hanno permesso di evidenziare una maggior sicurezza da parte del ranibizumab.

La difficoltà di valutazione si accentua con la pratica clinica. Infatti, mentre i pazienti seguiti negli studi clinici sono monitorati per tutta la durata (almeno due anni) anche nel caso di uscita dallo studio, questo non è facilmente replicabile nella pratica clinica per una serie di ragioni che di seguito sono elencate:

• il medico oculista non è abituato a pensare ad effetti collaterali con i propri farmaci. Pertanto se il paziente non si presenta alla visita il fatto viene attribuito alla rinuncia a tali terapie o alla difficoltà da parte dei parenti di accompagnarlo;

• il paziente non pensa che le terapie intraoculari possano creare problemi sistemici.  Pertanto o non riferisce all’oculista alcune complicanze o non comunica al medico di medicina generale, all’internista, al cardiologo, al neurologo o al gastroenterologo o al personale dei pronti soccorsi o delle stroke unit, le terapie oculari effettuate;

• gli stessi specialisti non sono a conoscenza che terapie oculari possono creare effetti avversi sistemici;

• le complicanze non è detto che avvengano a distanza di poche ore o giorni dalle iniezioni ma possono avvenire a distanza di mesi anche per l’accumulo che le continue somministrazioni comportano;

• bisogna poi ricordare che i pazienti con degenerazione maculare senile sono anziani “fragili” che presentano al di sotto dei 75 anni di età un rischio 5 volte superiore per mortalità cardiovascolare e 10 volte superiore per emorragie cerebrali rispetto ai pari età.

Da tutto ciò si capisce come una valutazione reale dei rischi di complicanze sistemiche sia difficile e che quindi utili potrebbero essere valutazioni di altro tipo, per esempio analizzando i ricoveri, gli accessi ai pronti soccorsi, o le certificazioni di morte così come si fa per i registri dei tumori.

Fonte: Editoriali Aifa 15 aprile 2014-04-18

Giovanni Staurenghi
Professore Ordinario di Oftalmologia, Università degli Studi di Milano


Mario Cigada
Oftalmologo


18 aprile 2014
© Riproduzione riservata

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