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Speciale cardiologia 7. Ipertensione: ritorno al passato con i diuretici ‘vintage’

di Maria Rita Montebelli

Lo spironolattone è l’arma vincente contro l’ipertensione resistente, suggerisce uno studio indipendente inglese e potrebbe quindi essere inserito subito nelle linee guida di trattamento dell’ipertensione. Dimostrato anche che l’associazione idroclorotiazide-amiloride a dosaggio ridotto non aumenta né il rischio di diabete, né di iperpotassiemia. Si inaugura così l’era dei trattamenti ‘vintage’ efficaci, sicuri e a costi ridottissimi.

01 SET - E’ la rivincita dei diuretici risparmiatori di potassio, farmaci con un’onorata carriera di 50 anni, tutti ormai genericati e un po’ caduti nel dimenticatoio. Fino ad oggi. Dal congresso dei cardiologi europei, giunge infatti un perentorio invito a tirarli fuori dal cassetto, come arma vincente per il trattamento dell’ipertensione resistente. Rivalutata appieno anche l’associazione idroclorotiazide-amiloride a bassi dosaggi: non aumenta il rischio di diabete e non provoca pericolosi aumenti della potassiemia.
 
Studio PATHWAY-2. I soggetti con ipertensione non controllata, nonostante il trattamento con un’associazione di tre farmaci (cosiddetta ipertensione resistente), potranno trovare beneficio dall’aggiunta dello spironolattone. Lo dimostrano i risultati dello studio PATHWAY-2 (Prevention And Treatment of Drug Resistant Hypertension), presentati a Londra in una hot-line del congresso della Società Europea di Cardiologia.
“Questo farmaco – afferma il primo autore dello studio,  Bryan Williams, University College London e British Hypertension Society Research Network – è stato chiaramente il ‘vincitore’ rispetto ad altre classi e dovrebbe dunque rappresentare la prima scelta come terapia da aggiungere a quella già in atto, nei soggetti con ipertensione resistente. Sono risultati di rilevanza internazionale e immediatamente trasferibili nella pratica clinica”.
 
Per ipertensione resistente si intende quella forma non controllata (sistolica ambulatoriale ≥ 140 mmHg nei soggetti non diabetici e ≥ 135 mmHg nei soggetti con diabete oppure pressione misurata a casa ≥ 130 mmHg) nonostante il trattamento con un’associazione di tre classi diverse di antipertensivi, in genere ACE-inibitori/sartani, calcio-antagonisti e un diuretico tiazidico. I pazienti interessati da questa condizione rappresentano non meno del 10% di tutti gli ipertesi (almeno 100 milioni di persone nel mondo) e sono ad elevato rischio di eventi cardiovascolari.
 
Lo studio PATHWAY-2 ha riguardato appunto pazienti con ipertensione resistente, già in trattamento con la massima dose tollerata di un’associazione di tre farmaci: un ACE-inibitore o un sartano (ARB), un calcio antagonista e un diuretico tiazidico. “La questione, di fronte a questi pazienti – afferma il professor Williams – è quale farmaco aggiungere alle terapie già in atto.”
Recenti metanalisi, condotte su tre piccoli trial controllati e su dati osservazionali non controllati, hanno suggerito che il candidato ideale potesse essere lo spironolattone, ma finora non erano mai stati effettuati trial randomizzati controllati, mirati espressamente a confrontare lo spironolattone con altri antipertensivi nel contesto dell’ipertensione resistente. Il PATHWAY-2, condotto su 314 pazienti con ipertensione resistente, ha dimostrato adesso la possibilità di ottenere con l’aggiunta di spironolattone un controllo stringente del valori pressori in almeno il 60% dei soggetti; risultato ottenuto solo nel 17% di quelli trattati con bisoprololo e nel 18% di quelli trattati con doxazosina.
 
“Il PATHWAY-2 ha dimostrato – commenta Williams - che lo spironolattone (25-50 mg/die) è di gran lunga l’antipertensivo più efficace, rispetto al bisoprololo (5-10 mg/die) e alla doxazosina (4-8 mg/die). Questi risultati suggeriscono inoltre che il carattere patogenetico predominante, alla base dell’ipertensione resistente sia la ritenzione di sodio, persino tra i pazienti già in terapia basale con un diuretico. E questo stabilisce per la prima volta una chiara gerarchia nel trattamento farmacologico del’ipertensione resistente, che dovrebbe influenzare le linee guida future e la pratica clinica a livello mondiale”.
 
I risultati del PATHWAY-2 portano inoltre a riconsiderare l’assunto, che si era prepotentemente fatto strada negli ultimi anni e cioè che controllare un soggetto con ipertensione resistente fosse decisamente al di là della portata della terapia farmacologica. Tanto da aver aperto la strada, come strategia di trattamento, alla denervazione renale, una tecnica mininvasiva. “Il nostro studio – sostiene Williams – dimostra invece che è possibile raggiungere un buon controllo pressorio nella maggior parte dei pazienti, semplicemente utilizzando un farmaco, disponibile da decenni e mettono pesantemente in discussione il concetto che non si possa trattare in maniera adeguata con i farmaci l’ipertensione resistente. Il PATHWAY-2 suggerisce invece che le terapie ad effetto natriuretico, cioè che promuovono l’escrezione di sodio, sono probabilmente le più efficaci in questi pazienti. Questi risultati inoltre – conclude Williams – dovrebbero in futuro influenzare il disegno di nuovi trial sull’ipertensione resistente; al termine del nostro studio e utilizzando questo trattamento solo una quindicina di pazienti sarebbero stati ancora candidabili al trattamento di denervazione renale”.
La terapia dell’ipertensione resistente, potrebbe dunque tornare al passato remoto del trattamento dell’ipertensione, che ha mosso i primi passi proprio dai diuretici. In questo caso, l’uovo di Colombo è rappresentato da una classe particolare di diuretici, quelli risparmiatori di potassio e in particolare dallo spironolattone, che sembra, stando ai risultati dello studio PATHWAY, la soluzione definitiva al problema dell’ipertensione resistente.
 
Studio PATHWAY-3. L’associazione di due diuretici, comunemente usati nella pratica clinica, ognuno dei quali a metà della dose massima, può ridurre in maniera significativa la pressione arteriosa senza incorrere negli effetti collaterali, possibili con il dosaggio pieno.
“Questi risultati – commenta il coordinatore dello studio PATHWAY-3, Morris J. Brown dell’Università di Cambridge – supportano l’impiego in prima linea di questa associazione nei pazienti che richiedano una terapia diuretica per il trattamento dell’ipertensione e la British Society of Hypertension la raccomanderà”.
 
I tiazidici hanno rappresentato la prima scelta nel trattamento dell’ipertensione per molti anni, poi la loro fortuna si è un po’ appannata per il timore che potessero aumentare il rischio di diabete. Una possibile spiegazione di questo loro effetto diabetogeno è il rischio di deplezione di potassio, insito in questi trattamenti. Per questo, associare i tiazidici a diuretici risparmiatori di potassio, come l’amiloride, potrebbe fornire una soluzione, ma allo stesso tempo aprire la porta al rischio di un eccessivo aumento dei livelli di potassio circolanti.
 
L’idea dei ricercatori inglesi è stata dunque quella di somministrare le due classi di diuretici in associazione e a posologia dimezzata, per ‘neutralizzare’ gli effetti sui livelli di potassio, aumentando al contempo l’escrezione di sodio a livello di due diversi target renali (ribattezzato dagli autori ‘sinergismo natriuretico’)  e potenziando in maniera sinergica la loro azione antipertensiva.
 
Lo studio PATHWAY-3 ha valutato appunto questa strategia di associazione low-dose su 399 soggetti obesi, ipertesi, di età media 61-63 anni, con almeno un ulteriore tratto di sindrome metabolica e l’indicazione alla terapia diuretica. Tutti sono stati randomizzati a trattamento con amiloride al dosaggio di 10 mg o con idroclorotiazide (HCTZ) alla posologia di 25 mg o all’associazione dei due a dosaggi dimezzati (5 + 12,5 mg) per 12 settimane, seguite da altre 12 settimane a dosaggi raddoppiati in tutti e tre i gruppi.
 
Endpoint primario dello studio era di valutare le eventuali alterazioni della curva da carico di glucosio (OGTT), rispetto all’inizio dello studio. E’ stata registrata una significativa differenza nei livelli di glicemia a due ore dal carico glucidico tra il gruppo amiloride e quello HCTZ; la differenza media dei livelli di glicemia tra i due gruppi al termine dello studio è stata di 0,55 mmol/L (circa 10 mg/dl), a sfavore del gruppo HCTZ. I livelli di glicemia rimanevano invece inalterati al termine dello studio nei soggetti trattati con l’associazione dei due diuretici.
 
L’endpoint secondario, riguardante il controllo pressorio, è invece risultato accettabile e simile in entrambi i gruppi in monoterapia diuretica; i soggetti trattati con amiloride presentavano una riduzione di 14,7 mmHg e quelli del gruppo HCTZ un abbassamento di 14 mmHg. I pazienti trattati con l’associazione presentavano un potenziamento dell’effetto antipertensivo, mostrando un’ulteriore riduzione di 3,4 mmHg, rispetto a quanto ottenuto con il solo HCTZ.
 
“Il nostro studio – commenta Brown – dimostra che l’amiloride è un farmaco che già da solo è efficace almeno quanto l’HCTZ e che combinare i due a metà dosaggio rappresenta una strategia vincente che consente di ottenere un miglior controllo pressorio, riduce la glicemia e non determina alterazioni dei livelli di potassio”.
 
Gli studi PATHWAY, totalmente indipendenti, in quanto privi di qualunque interesse commerciale, sono stati finanziati dalla British Heart Foundation e dal National Institute for Health Research Comprehensive Local Research Networks inglese.
 
Maria Rita Montebelli

01 settembre 2015
© Riproduzione riservata

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