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Governance farmaceutica. Non basta cambiare qualche regola

di Federico Spandonaro

Implementare una nuova Governance non è questione semplicemente di cambiare qualche criterio, o introdurre qualche nuova regola competitiva: si deve partire da una visione d’insieme dei problemi, che contemperi aspetti assistenziali, industriali, etici, e poi di trovare una pragmatica mediazione fra le tante istanze, con la consapevolezza che le decisioni prese devono anche essere sinergiche e coerenti con le altre azioni di politica sanitaria (non solo farmaceutica) in essere

31 MAR - Nel mese di Dicembre 2018 ha ricevuto una certa eco la pubblicazione del documento ministeriale “in materia di Governance farmaceutica”, il quale indicava, fra l’altro, la necessità di rivedere la Delibera CIPE del 2001, ovvero i criteri e le modalità di valutazione utilizzati da AIFA per le negoziazioni dei farmaci; la Legge di Bilancio 2019 ha poi rafforzato l’attesa, indicando la data del 15 Marzo 2019 per l’emanazione, tramite decreto, dei nuovi criteri.

Sono seguite le immediate prese di posizione dei principali portatori di interesse, dopo di ché la questione, come spesso succede in Italia, sembra essersi altrettanto immediatamente sopita, tanto che il 15 Marzo ce lo siamo già lasciati alle spalle; ad oggi, se un dibattito è in corso, esso si sviluppa in modo carsico: di fatto non è dato sapere quale sia lo stato dell’arte delle riflessioni in corso. E neppure è noto, quindi trasparente, chi siano gli esperti chiamati a “pensare” la nuova Governance.
Non può essere sottaciuto che, viste le ambizioni del documento, una larga condivisione pubblica sarebbe, invece, per lo meno auspicabile.

In assenza di un dibattito trasparente, è allora lecito provare ad alimentarne l’emersione proponendo le proprie personali riflessioni, spinti dall’osservazione che il problema prioritario non è certamente quello del rispetto dei “tempi”, quanto quello dei contenuti: in altri termini, il rischio da evitare è quello di trovarsi davanti una proposta che, pur spacciandosi per governance, proponga solo qualche “aggiustamento” tattico e non strategico. Questo perché una nuova governance è evidente essere assolutamente necessaria: infatti, nuove opportunità (fortunatamente) arrivano sul mercato, ma con impatti finanziari rilevanti e sempre meno sostenibili con i previsti tassi di crescita del finanziamento del SSN; i fondi per l’innovazione quest’anno potrebbero già chiudere “in rosso”; i payback essere sempre meno sostenibili, etc. etc.

Ovviamente, mancando informazioni su quanto in divenire, si può replicare che a “pensar male si fa peccato”: temere per gli esiti di un processo di elaborazione che si svolge nella disattenzione generale è un “peccato” che speriamo possa essere giustificato dall’esigenza di aprire una breccia nel muro di “silenzio” attuale, peraltro rotto, di tanto in tanto, da rumors che, se confermati, non credo sarebbero facilmente condivisibili.

Ciò premesso, osserviamo come, in primo luogo, appaia evidente che il termine “Governance farmaceutica” dovrebbe alludere ad un nuovo e complessivo assetto del settore; e quindi tanto dei criteri di valutazione, quanto delle modalità (processi) all’interno dei quali gli stessi vengono utilizzati, come anche della compagine degli attori chiamati a partecipare.

Come lucidamente notato da Gianfrate (Quotidiano Sanità, 13.12.2018) il rischio è che, invece, tutto giri intorno ad una unica idea (da lui battezzata “la governance del 18 politico”): quella per cui i prezzi dei nuovi farmaci sono troppo alti e che aumentando la competizione essi possano essere ridotti.

La diffusione di questo “sentiment”, per quello che vale l’esperienza personale, effettivamente sembra elevata, per quanto si sente affermare nei dibattiti che si sviluppano nelle varie sedi congressuali.
Personalmente concordo con Gianfrate che questo approccio sia esageratamente “semplicistico” e, quindi, non confacente alla complessità della materia.
 
La proposizione “prezzi troppo alti”, ad esempio, o è scorretta o è, come detto, eccessivamente semplificatrice.
Bisogna chiedersi a cosa sia riferito l’aggettivo “troppo”; se si riferisce al fatto che in Italia paghiamo “troppo” i farmaci, allora è una affermazione semplicemente falsa: i dati disponibili dicono che li paghiamo mediamente meno degli altri Paesi EU (ovviamente in media… portare come controprova, come fa qualcuno, il caso del singolo Paese, o del singolo farmaco, è del tutto scorretto, e nel seguito credo che quanto argomenterò supporti questa posizione).

Se, invece, si intende che i prezzi sono “troppo alti” perché impediscono un accesso universale ai farmaci, temo si stia scadendo nell’ovvio.
Infatti, non è certo una novità che, in alcuni Paesi, non è possibile permettere l’accesso generalizzato ai farmaci; la diseguale distribuzione della ricchezza è una ingiustizia che affligge l’umanità e che, pur auspicando sia bandita dalla faccia della terra, non la metterei fra gli argomenti della Governance farmaceutica nazionale: ovviamente se si abbassassero i prezzi qualcuno in più avrebbe accesso ma, pragmaticamente (e anche eticamente), se si vuole favorire l’accesso nei Paesi più poveri, intanto quelli “ricchi” come il nostro potrebbero aumentare gli sforzi per fornire aiuti.

Se poi, invece, intendiamo che (più “egoisticamente”) ci preoccupiamo per l’accesso ai farmaci, ma degli Italiani, ovvero l’attenzione è per i rischi di razionamento in Italia, da una parte credo sia un bene avere acquisito (presumibilmente grazie alla vicenda dei farmaci HCV) la consapevolezza che il “diritto alla salute” non è cosa scontata; dall’altra, credo realisticamente, bisogna ammettere che i limiti di accesso in Italia, ad oggi, sono stati minimi, e che siamo uno dei Paesi che garantisce più opportunità terapeutiche; e allo stesso tempo colgo una incoerenza nel fatto che quelli che temono le barriere all’accesso, spesso siano gli stessi che argomentano sull’inappropriatezza dei consumi, e sulla inconsistenza delle evidenze fornite dai farmaci presunti innovativi.

In sostanza, direi che è improprio affermare che i prezzi siano “troppo” alti: più onestamente possiamo limitarci ad affermare che sono alti; d’altra parte, traslando la riflessione, parlando di una Ferrari, penso saremmo tutti d’accordo ad affermare che il prezzo è alto; ma per dire se è “troppo” alto dobbiamo metterci d’accordo se rimane o meno “value for money”.

In altri termini, anche se i farmaci non sono beni di lusso, parlare di prezzi senza confrontarli con il “valore” che ne deriva ha poco, se non addirittura alcun, significato.
Il “troppo” è, quindi, logicamente figlio di un diffuso scetticismo sul “valore” (ricordo che il contributo è “generale” e quindi che stiamo ragionando in media e non di casi specifici).

Allo stesso tempo, nei dibattiti cui partecipo, quindi con tutti i limiti di rappresentatività del caso, sempre più spesso riscontro, fra gli operatori del SSN italiano, una crescente frustrazione derivante dall’altrettanto crescente difficoltà di finanziare tutte le innovazioni (che quindi in qualche modo vengono riconosciute): frustrazione spesso sintetizzata e imputata ad un insufficiente potere negoziale nei confronti delle imprese farmaceutiche.

In sintesi, sembrerebbe emergere che il problema sia nel fatto che le nostre autorità regolatorie siano “costrette” a pagare un prezzo ritenuto eccessivo rispetto al “valore” delle terapie.
Vista con il dovuto distacco, questa presunta carenza di potere di mercato delle autorità regolatorie sembra difficilmente giustificabile: infatti, se da una parte del “tavolo” siedono multinazionali, forti del potere monopolistico derivante dai loro brevetti, dall’altra si contrappongono monopsoni (ovvero monopoli di domanda) importanti, se non altro per le dimensioni, visto che normano i mercati a livello nazionale.

Faccio allora logicamente fatica a pensare che una autorità nazionale non abbia un adeguato potere di mercato: va da sé che a fronte di un rifiuto generalizzato di rimborsare un farmaco, che di fatto lo estrometterebbe dal mercato, ci sarebbe una “risposta” da parte industriale (questo vale almeno per quelli a costo elevato, che di certo non avrebbero un mercato “privato” se non marginale).
La verità (se esiste) è che si confonde il potere di mercato con il “potere impositivo”: in altri termini si vorrebbe che ogni singola autorità potesse imporre alle farmaceutiche il prezzo da Lei ritenuto “giusto” (su quale base “giusto” peraltro nessuno lo sa).

Una lettura un po’ più realistica dovrebbe riconoscere che il problema è, invece, che le negoziazioni nazionali sono condizionate proprio dalle precedenti decisioni delle altre autorità regolatorie: in altri termini, se qualcuno è disposto a pagare 100 per un farmaco (ovvero gli riconosce quel livello di “valore”), sarà poi difficile per gli altri pagarlo 20… e, ovviamente, è logico che la strategia delle imprese prevederà di negoziare il rimborso prima dove si prevede esserci una maggiore willingness to pay.

Per uscirne bisogna assumere consapevolezza (che onestamente mi pare diffusa) delle peculiarità del mercato farmaceutico.
Provo nel seguito, adottando per mia competenza una visione economica, a proporre qualche elemento e peculiarità che mi pare utile tenere presente per dare una cornice logica al ragionamento (scusandomi a priori per le semplificazioni adottate):
1. i farmaci sono di fatto commodities, ovvero non sono “diversificabili”
 
2. il mercato dei farmaci è “sovranazionale”
 
3. un monopolista (qualunque, non necessariamente farmaceutico), ha il potere di imporre un prezzo certamente maggiore di quello di concorrenza perfetta, ma non ha interesse a imporlo “alto in assoluto” … se lo fissasse “troppo alto”, non massimizzerebbe il suo profitto, per effetto del fatto che perderebbe troppi consumatori (ed essendo la curva di domanda sovranazionale, di fatto se è “troppo alto” non riuscirebbe a commercializzarlo in “interi Paesi”)
 
4. per massimizzare il profitto, un monopolista dovrebbe poter discriminare il prezzo (ovvero far pagare di più ai “ricchi”, che sono più disposti a pagare, e di meno ai “poveri”), sfruttando così tutto il potenziale mercato; questa strategia, molto comune in economia, è però difficile con i farmaci, perché si comportano da commodities
 
a) in altri termini, discriminare il prezzo, in pratica far pagare meno i farmaci in alcuni Paesi che hanno minori risorse, sarebbe in verità un interesse delle imprese farmaceutiche, ma la sua applicabilità è limitata dal rischio di innescare processi di esportazione/importazione parallele (operazioni di speculazione per cui si comprano i farmaci nei Paesi dove costano meno e si rivendono in quelli dove costano di più), ovvero di “contagio” (richiesta in tutti i Paesi di allineare il prezzo su quello più basso); i costi di transazione (comprare, spostare e rivendere i farmaci) sono piuttosto bassi e questo rende davvero limitati i margini di discriminazione.
 
5. in tema di discriminazione di prezzo, gli ultimi anni hanno però visto emergere con chiarezza come una discriminazione dei prezzi sia realizzabile, purché si usino sconti applicati ex post e “non trasparenti”: sul primo punto, va da sé che uno sconto applicato su un farmaco già consumato, non può generare i rischi di esportazione/importazione parallela; sul secondo punto osserviamo che la “non trasparenza” fa parte del gioco, in quanto evita/limita l’effetto contagio

6. da quanto sopra si può comprendere perché il “monopolista farmaceutico” discrimini il prezzo, fissando un prezzo di riferimento (una soglia minima) che (a torto o a ragione) considera il livello sotto il quale i rischi di “contagio” superano i benefici della discriminazione.
Quanto sopra mi sembra confermi che il ragionamento sulla Governance debba confrontarsi con tematiche effettivamente complesse, e ne seguono varie implicazioni.

In primo luogo che ricondurre la questione dei prezzi a presunte questioni etiche, come a volte sento fare nei dibattiti, è un approccio sostanzialmente improprio; i meccanismi sopra descritti, sebbene si parli di massimizzazione dei profitti, sono normale etica economica (e onestamente non vedo cosa ci sia di immorale nella misura in cui l’innovazione è di fatto prodotta dalle imprese private): se si volesse affermare il principio che i farmaci non devono produrre profitti, basterebbe che gli Stati decidessero di promuovere una industria farmaceutica pubblica non profit, e provvedessero a distribuire i farmaci a prezzo di costo: ma se questo non avviene, “suppongo” un motivo ci sia.

Ovviamente cosa diversa sono gli “eccessi” di profitto: ma torniamo al fatto che per controllarli sarebbe sufficiente avere il coraggio di dire qualche “no” (come qualche Paese coraggiosamente fa), ovvero di non rimborsare quelli non “value for money”.
 
Come anticipato, questo difficilmente avviene, perché alcuni Paesi sembrano invece disposti a pagare molto più di altri (condizionando anche di fatto le negoziazioni successive). Senza pretesa di esaustività suggerirei le seguenti spiegazioni:
a) la prima, ovvia e immediata, è che questo avviene perché sono più ricchi
b) la seconda è che dai consumi traggono maggiori benefici indiretti, perché sono i Paesi in cui tornano in ultima istanza i profitti.

Ai fini della Governance nazionale, se queste affermazioni sono condivisibili, ne segue che bisogna avere consapevolezza del fatto che la questione dei prezzi non si può risolvere a livello nazionale, ma anche che è molto difficile si risolva con accordi internazionali: se domani si stabilisse un prezzo medio internazionale, ne beneficerebbero di fatto gli Stati che oggi pagano di più: con questo tipo di approccio, l’Italia probabilmente ci rimetterebbe. A meno, ovviamente, che l’accordo internazionale fosse tale per cui i prezzi fossero allineati verso il basso: ma in questo caso sarebbero danneggiate non solo le aziende farmaceutiche, ma anche i Paesi dove tornano in prevalenza i profitti, rendendo l’obiettivo molto difficilmente perseguibile.

Una seconda “lezione” che segue è che politiche farmaceutiche del SSN e politiche industriali non possono essere scisse; la Governance dovrebbe privilegiare tutto ciò che ci può permettere di essere fra i Paesi che ricavano un beneficio dall’accesso dei farmaci al mercato a livello globale; il tema è presente nel “Documento in tema di Governance” (al punto h), ma in maniera molto limitativa, e presupponendo erroneamente che comunque i tavoli” siano divisi e divisibili.

In termini industriali, credo valga anche la pena considerare che, stante la riduzione della crescita economica nell’area dei Paesi sviluppati, e stante le previsioni di una persistenza nel lungo periodo di una crescita modesta, è da attendersi che le Aziende farmaceutiche dovranno comunque fronteggiare una riduzione della willingness to pay, e quindi ridurre le loro aspettative sui prezzi. Nello stesso senso dovrebbe andare la tendenza all’allargamento dei mercati ai Paesi emergenti, in quanto crea le condizioni per una riduzione dei prezzi per effetto dell’incremento dei volumi.

Ma se queste ultime sono, per un verso, “buone” notizie, per un altro verso portano con sé una potenziale criticità: l’importanza relativa del “mercato Italia” è in riduzione e questo sì riduce il nostro potere di mercato.
Quello che, invece, ha sinora aumentato il nostro “potere di mercato”, è stata la lungimiranza di AIFA nell’implementare meccanismi di sconto ex post (sopra richiamati): il pay back ne è un evidente esempio, ma anche i MEA (Managed Entry Agreements), ovvero pagamenti pay per performance o cost sharing.

E allora bisogna dirsi con chiarezza che chiedere la trasparenza in tema di accordi negoziali, come ho sentito fare, risulta profondamente ingenuo: solo Nazioni isolate geograficamente potrebbero non essere (o essere meno) soggette alle problematiche di export parallelo sopra descritte e l’unico modo per beneficiare dei margini di discriminazione di prezzo è usare “accordi confidenziali”.

Analogo discorso vale per la questione della pubblicazione degli esiti del monitoraggio delle gare, di cui al punto f) del documento sulla Governance: la trasparenza è un valore, ma chiaramente un prezzo reso noto condiziona tutte le gare successive e quindi limita i margini di discriminazione: meglio accontentarsi di fissare un prezzo massimo.

Ovviamente ben venga, invece, la trasparenza in altri campi: ad esempio nelle valutazioni delle autorità regolatorie, che è richiamata ancora nel punto h).

Quindi, in sintesi, riprendendo quanto previsto nel “Documento in tema di Governance”, pur essendo lapalissiano che nell’ambito della Governance farmaceutica un ruolo significativo è rappresentato dal prezzo, ritenere che sia solo una questione di potere di mercato, incrementabile innescando maggiore competizione è piuttosto ingenuo.

Sembra, invece, prevalere proprio una lettura statica dei fenomeni economici, che porta a riporre molta fiducia nel fatto che la questione sia risolvibile implementando “modalità più competitive di approvvigionamento dei farmaci”, richiamate sin dal punto a) del documento, e riprese varie volte con il concetto di equivalenza terapeutica.

Personalmente credo che il concetto di equivalenza terapeutica (a parte le problematiche definitorie che non affronto per ragioni di spazio) abbia un forte razionale in fase di definizione dei prezzi massimi di acquisto (su cui tornerò dopo) e, invece, sia un approccio pericoloso se usato, come previsto dal Documento, ma ancor più chiaramente come auspicato dalle Regioni, per innescare competizione.

La pericolosità discende dall’osservazione per cui:
1. penso sia ormai del tutto evidente che la fissazione del prezzo dei farmaci non è correlabile ai costi di produzione (con relativamente poche eccezioni, come nel caso di alcune advanced therapies)
 
 
2. l’ormai “antica” e abusata questione della valutazione dei costi di ricerca e sviluppo, sebbene fra i “partiti estremi” ci sia un differenziale con un fattore 2 (ovvero con le stime più conservative si arriva grosso modo a dimezzare i costi), alla fine risulta marginale sul piano pratico, perché spiega poco dei prezzi di mercato e specialmente della loro dinamica negli ultimi anni
 
3. la dinamica dei prezzi negli ultimi anni sembra chiaramente legata
 
a) alla tendenziale riduzione dei mercati legata alla “personalizzazione” delle terapie

b) alla crescita della competizione (con conseguente indebolimento della protezione brevettuale… basti vedere come in tutti i settori le molecole first in class riescano a mantenere la propria posizione dominante per tempi sempre più brevi), in larga misura derivante dalla crescita della complessità delle molecole

c) alla crescita dell’importanza dei fattori legati alla finanziarizzazione dell’economia.
 
In sostanza, la crescita dei prezzi è alimentata dalla crescente difficoltà (sempre in media … ) dell’industria di garantirsi un certo ritorno dall’investimento, vuoi perché i farmaci targettizzati sono per pochi pazienti, vuoi perché in breve tempo arrivano altri competitors; in questo contesto, il tempo di accesso diventa sempre più la vera variabile di successo secondo l’industria: arrivare per primi, per sfruttare l’anticipo al fine di remunerare il capitale con rapidità, sembra l’ossessione imperante.
In altri termini, il tema vero non credo sia il costo della R&S, quanto la crescita, sia effettiva che percepita, del rischio.

Il caso dei farmaci per l’HCV e del crollo dei relativi prezzi (in un triennio giunti ad un livello che è meno di un decimo di quello iniziale), mi sembra testimoniare molto bene perché sia razionalmente ritenuto strategico arrivare per primi e “spremere” il mercato con prezzi iniziali alti.

Vorrei anche notare che la riduzione dei prezzi è certamente frutto della competizione e che essa si è sviluppata anche senza “equivalenza terapeutica” formalmente accertata.

Se questo è il quadro, allora ritengo che nel discorso della equivalenza terapeutica vada attentamente considerato che essa aumenta i rischi per le aziende, in quanto accelera la perdita della protezione commerciale. È, altrettanto, ovvio che per quanto concerne i farmaci già sul mercato, metterli a gara sulla base della loro presunta equivalenza terapeutica produrrebbe nel breve periodo dei risparmi; ma quanto saranno persistenti gli effetti è difficile dirlo, perché è probabile che in larga misura saranno vanificati dall’arrivo di nuove molecole con una superiorità accertata (basti vedere come storicamente la genericazione si sia spesso accompagnata ad un aumento del consumo delle nuove molecole brevettate).
 
Ma, a parte la persistenza, mi pare lapalissiano che dare al mercato l’informazione di una accelerazione dell’innesco dei processi competitivi, non potrà che spingere verso l’alto il prezzo delle nuove molecole che arriveranno sul mercato, esasperando la strategia del “tutto e subito”.

In sintesi, personalmente ritengo molto sopravvalutato il beneficio della “operazione equivalenza terapeutica”, su cui invece scommettono le Regioni e il “Documento in tema di Governance” adottando (se mi si permette) un approccio ragionieristico che non tiene conto delle dinamiche prospettiche: di contro in Economia bisogna sempre analizzare gli effetti finali degli incentivi/disincentivi che si generano.
Rimanendo sul tema della competizione, in ogni caso la Governance non può prescindere da una valutazione di insieme del processo.

Se si vuole scommettere sull’effetto benefico delle “modalità più competitive”, credo sia essenziale domandarsi se abbia ancora senso mantenere un processo negoziale accentrato, che di fatto configura una barriera all’ingresso.

Visto che l’industria “ha fretta” (per i ragionamenti sopra svolti) ha senso rallentare il processo di accesso, per negoziare un prezzo massimo che servirà a poco perché poi “ridiscusso” localmente con procedure competitive?

D’altra parte, sul fatto che la negoziazione in Italia sia “lenta” e non per inefficienza di AIFA, non si discute: intanto abbiamo una bassa willingness to pay (per ragioni di stagnazione economica), e già per questo quindi siamo nel fondo della lista dei Paesi in cui le Aziende vanno a negoziare (anche su questo si veda quanto argomentato precedentemente); per di più, all’AIFA è dato l’ingrato compito (che il documento conferma) di garantire la valutazione del merito dei farmaci, ma anche il rispetto dell’equilibrio finanziario, e questo non di rado implica logiche difficoltà, con conseguenti rallentamenti della negoziazione.

Ho impressione che ritardare l’accesso e poi rinegoziare i prezzi con procedure competitive, oltre a duplicare i costi sia per il SSN che per le Aziende, è certamente un “suicidio” in termini di coniugazione delle istanze di finanza pubblica e di politica industriale, e vanificherebbe la speranza di portare ricerca e profitti “in casa”.

Credo sarebbe allora auspicabile ampliare il ragionamento: se si vuole potenziare la competizione, allora va modificato il processo; ad esempio adottando un approccio “alla tedesca”, con un accesso temporaneamente libero, e con una successiva rinegoziazione decentrata sulla base di prezzi massimi definiti con i farmaci già sul mercato (onde evitare equivoci, aggiungiamo che è cosa ben diversa dal percorso previsto dal decreto Balduzzi del 2012 con l’istituzione della classe C(nn), che pur garantendo l’accesso dei farmaci al mercato, non permette il loro rimborso, se non extra LEA, e quindi nelle Regioni che possono accedervi).

Quel modello, ovviamente in caso da rivedere e adattare alle caratteristiche nazionali, permetterebbe di mettere sul tavolo la possibilità di uno scambio fra anticipazione dei ritorni e riduzione dei prezzi nel medio periodo: uno scambio del genere ha una razionalità economica, mentre mantenere la duplicazione delle “funzioni” molto meno.

Se non altro per coerenza personale, devo aggiungere che, pur vedendo personalmente di buon occhio l’approccio tedesco, devo segnalare che decentrare i processi implica con certezza l’aumento delle disequità: è facile previsione che le Regioni e/o le strutture locali avranno diversi poteri di mercato e quindi spunteranno prezzi diversi. Data la natura del SSN, equità è parola “colpevolmente” assente (mai usata) nel “Documento in tema di Governance”.

Pragmaticamente, ho la sensazione che in un Paese come la Germania, le minori disparità socio-economiche rendano molto più sopportabili che in Italia i rischi di disequità generati da un siffatto modello di Governance.

Tralasciando questioni importanti ma più “semplici” (cito, senza pretesa di esaustività, la necessità di superare il doppio tetto, sebbene sul punto mi sfugga poi la ratio per cui il documento al punto p) preveda addirittura tetti regionali, come anche di superare la logica a silos dei fondi innovativi, e anche le potenziali duplicazioni derivanti dall’esistenza delle due commissioni CTS e CPR, etc.) l’ultimo punto che vorrei toccare è quello dei criteri di fissazione del prezzo massimo di acquisto per il SSN.

Sul tema specifico, il “Documento in tema di Governance” stabilisce alcuni principi in generale del tutto condivisibili.

Il primo è che “farmaci terapeuticamente equivalenti devono avere lo stesso prezzo di rimborso a carico del SSN”; principio declinato poi meglio (dal mio punto di vista) nel punto o) dove diventa “farmaci uguali, o con lo stesso valore terapeutico, devono avere prezzi a carico del SSN uguali”: si noti per inciso, la sottile incoerenza di non aggiungere l’aggettivo “massimi”, senza il quale se ne dovrebbe concludere che o non si fanno gare (come invece si caldeggia) o si fa una gara unica nazionale (che non credo sia nelle aspettative regionali).

A parte le incoerenze di insieme, è importante però notare che si afferma il principio per cui si paga il “valore” dei farmaci.

Pagare per il “valore” che si ottiene è, in effetti, principio alla base del criterio della costo-efficacia, richiamata peraltro nel documento e su cui si basano le valutazioni economiche. La costo-efficacia (e le sue “varianti”) ha un fondamento etico perché permette in via di principio di massimizzare la salute (misurata con gli endpoint di efficacia adottati) prodotta con le risorse pubbliche disponibili.

Il secondo principio recita, sempre punto o), che “un prezzo SSN di rimborso superiore rispetto alle alternative terapeutiche può essere riconosciuto solo a farmaci che abbiano dimostrato un vantaggio terapeutico, in termini di esiti clinici quali la sopravvivenza, la qualità di vita, il controllo dei sintomi, la riduzione della tossicità clinicamente rilevante”.

Quindi, implicitamente si riconosce anche, e su questo dovrò tornare, che il “valore” è un continuum, sul quale i prezzi devono essere riproporzionati.
Su queste tematiche ritengo necessario avere sempre presente due aspetti e le loro non banali conseguenze.
Il primo è che “valore” e efficacia sono due cose diverse: a conferma di ciò basti vedere che negli algoritmi di definizione dell’innovazione un criterio di “valore” è l’evidenza, e un altro l’unmet need: ed entrambi esulano dalle misure di efficacia usati nelle valutazioni economiche di costo-efficacia; lo stesso dicasi per altri criteri che possono (e lo sono implicitamente) essere usati, quali la gravità della malattia e/o la distribuzione dei benefici.

Quindi, è essenziale avere consapevolezza del fatto che l’efficacia (e le sue varianti) sono dimensioni non esaustive del “valore”: consapevolezza che è alla base dello sviluppo dell’HTA.

L’HTA ha ben chiarito che la costo-efficacia (come altre metodiche) che sono alla base del processo di assessment, non possono che rimanere funzionali (è uso dire “di supporto”) all’appraisal.

Mi scuso per l’inglesismo dovuto ad una carenza di termini altrettanto riconosciuto nella nostra lingua: l’assessment è la base oggettiva di una decisione; l’appraisal è l’“aggiunta” soggettiva, oserei dire politica, che è resa necessaria dalle dimensioni distributive, etiche, etc del “valore”.

Su questo punto il “Documento in tema di Governance” si dimostra largamente carente, perché sembra considerare auto sufficiente l’assessment, a parte una timida citazione al punto t) dove si parla della rappresentanza dei pazienti; ci si dimentica che la scommessa è rendere più “trasparente” l’appraisal, sull’assessment le regole del gioco sono già largamente condivise; mi sembra che si procrastini una inaccettabile logica tecnocratica nella valutazione del “valore”, confermata dall’elencazione non esaustiva delle dimensioni del vantaggio terapeutico, dove l’unica “concessione olistica” è la citazione della qualità della vita.

Credo sarebbe utile che nel dibattito ci si confrontasse su questo punto: personalmente ribadisco che ritengo che la valutazione del prezzo non possa non partire dall’oggettività scientifica della costo-efficacia e delle altre valutazioni dell’assessment, ma che richieda un trasparente processo di appraisal, al fine di incorporare le “altre” dimensioni di “valore”.

Per inciso, mi sembra che solo nella fase di appraisal può avere senso e spazio comprendere valutazioni relative alla “congruità” dei potenziali profitti che le tecnologie generano, secondo logiche di etica del business.

Il secondo aspetto è che la costo-efficacia, per quanto “oggettiva” e “etica”, ha certamente una forte responsabilità nell’incremento dei prezzi: dovrebbe essere chiaro che il criterio implica, in generale, che più efficacia si produce e più crescono i costi.

La logica del “value based pricing” premia l’innovazione, e da questo punto di vista è largamente condivisibile e opportuno: ma rimarrebbe sostenibile solo con una applicazione del tutto “economicamente ortodossa” del criterio decisionale, il quale preveda la definizione a priori delle risorse disponibili e quindi una stretta prioritarizzazione.

Ma questo approccio è di fatto non applicabile, perché anno dopo anno andrebbe rivista la lista delle tecnologie (farmaci) rimborsate, con terapie che entrerebbero ed altre che uscirebbero dal mercato a seconda degli accessi dei nuovi farmaci e delle modificazioni dei prezzi. Non a caso, l’utilizzatore ad oggi più ortodosso dell’approccio della coto-efficacia, mi riferisco al NICE, ha sempre adottato la logica della definizione a priori del threshold di accettabilità sociale, rimborsando poi tutto quello che ha un indicatore di costo-efficacia sotto tale soglia. Un approccio pragmatico ma che implica un budget variabile.

Oltretutto, se dovessimo rapportare il threshold ai tassi di crescita economica attuale, ho impressione che sarebbe così basso da impedire l’accesso a quasi tutto.

Ovviamente, se vogliamo (giustamente) garantire una qualche proporzionalità fra vantaggio terapeutico (meglio “valore”) e prezzo, allora l’assessment assume un ruolo centrale. E anche in questo caso il principio è denso di conseguenze per ora apparentemente ignorate.

La prima è che, come anticipato, la proporzionalità implica un continuum del “valore”, e questo è attualmente in contrasto, ad esempio, con le logiche dicotomiche dell’attuale Governance: innovativo vs non innovativo, appropriato ve non appropriato etc. etc. Ed è in contrasto anche con l’attuale pratica che non lega il riconoscimento dell’innovazione al prezzo (premium price).

Se si vuole, e personalmente lo condivido, legare prezzo e “valore”, allora bisogna adottare per questo ultimo un approccio che ne preveda almeno la declinazione su una scala ordinale: i francesi prevedono 5 livelli di valore i tedeschi 6… solo noi ci limitiamo di solito a due (con il terzo incomodo della innovazione potenziale).

Ma se si adotta una scala di valore articolata, allora va completamente rivista la questione dell’innovazione, che si dimostra non essere altro che una qualche soglia convenzionale di “valore incrementale” che permette di accedere ad un premium price: così fanno, di nuovo, i francesi.
Sempre i francesi alla scala di “valore” (sociale) legano, però, anche i livelli di compartecipazione.

In conclusione, questo ultimo scampolo di ragionamento mi sembra confermi con chiarezza come implementare una nuova Governance non è questione semplicemente di cambiare qualche criterio, o introdurre qualche nuova regola competitiva: si deve partire da una visione d’insieme dei problemi, che contemperi aspetti assistenziali, industriali, etici, e poi di trovare una pragmatica mediazione fra le tante istanze, con la consapevolezza che le decisioni prese devono anche essere sinergiche e coerenti con le altre azioni di politica sanitaria (non solo farmaceutica) in essere.

 
Federico Spandonaro
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – C.R.E.A. Sanità

31 marzo 2019
© Riproduzione riservata

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