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Un’alternativa alla privatizzazione “strisciante”, c’è: va “governata”

di Claudio Maria Maffei

In questa fase delicata e complessa della sanità si chiede giustamente più pubblico ma c'è contemporaneamente bisogno anche di più privato. Ma quest'ultimo va governato in modo proattivo e orientato ai bisogni di salute senza esporsi passivamente alle logiche di mercato 

21 FEB - In questa delicata fase in cui il Servizio Sanitario Nazionale sta attraversando una tempesta quasi perfetta (tra gli effetti della pandemia e una serie di criticità storiche irrisolte dal sottofinanziamento alla regionalizzazione ingovernata da una parte e le difficoltà dei cittadini ad ottenere risposte tempestive e percorsi di presa in carico dall’altra), ci si trova di fronte ad una situazione in cui si chiede “più pubblico” (vedi tra le tante la posizione autorevole dell’Associazione Salute Diritto Fondamentale) e c’è contemporaneamente bisogno di “più privato”.
 
Infatti, se la produzione e la capacità operativa delle strutture pubbliche cala e contemporaneamente crescono le liste di attesa per le prestazioni ridotte o sospese qualcuno queste prestazioni le dovrà pur dare.
 
A mio parere una alternativa alla cosiddetta “privatizzazione strisciante” può essere la “privatizzazione governata”. La prima è subita ed esposta alle logiche di mercato mentre la seconda potrebbe essere proattiva e orientata ai bisogni di salute. Svilupperò al riguardo qualche riflessione prendendo ad esempio le Case di Cura Private Multispecialistiche.
 
Sempre dando per scontata una forte variabilità tra Regioni, si può affermare che le reti ospedaliere per acuti pubbliche e quelle private siano due mondi, le cui differenze possono essere così sintetizzate:
 
• le reti ospedaliere pubbliche per acuti sono fatte da strutture che hanno una articolazione organizzativa complessa e predefinita che copre tutte le aree con una offerta piuttosto rigida, sono fortemente coinvolte nel sistema delle urgenze e pertanto entrano in grave sofferenza in presenza di eventi come la pandemia che ne riducono fortemente la capacità operativa soprattutto nell’area delle prestazioni programmate;
 
• le reti ospedaliere private sono fatte prevalentemente da strutture con una produzione fortemente sbilanciata in area chirurgica, che viene spesso rapidamente modificata in base a logiche di mercato, con un coinvolgimento molto scarso nelle urgenze e in eventi straordinari come la pandemia che ha inciso molto meno sulla loro produzione.
 
Tra gli effetti di questa situazione c’è quello gravissimo, che il Servizio Sanitario  Nazionale non si può permettere, della scelta sempre più frequente dei professionisti di andare a lavorare nel privato, fenomeno all’attenzione anche questi giorni della stampa generalista nazionale e locale, oltre che segnalato già da tempo qui su QS dall’Anaao. Il fenomeno ha diverse cause, ma certo influisce molto la maggiore appetibilità del “mondo privato” rispetto a quello pubblico.
 
Purtroppo sono i riferimenti normativi stessi a fornire la possibilità che sanità pubblica e privata siano mondi diversi. Ho già ricordato qui su QS che il DM 70 nella nuova versione, che auspico arrivi presto, deve essere modificato nella parte che riguarda le strutture private di cui va in modo cogente previsto l’inserimento a pieno titolo nella rete ospedaliera complessiva della Regione.
 
I punti su cui lavorare sono i seguenti:
 
• il superamento della frammentazione delle reti ospedaliere private in strutture di piccole dimensioni acuti (oggi basta che la struttura privata faccia parte di un raggruppamento d’intesa che raggiunga almeno 80 posti letto non necessariamente in un’unica sede);
 
• un maggiore coinvolgimento nel sistema dell’emergenza ospedaliera delle strutture private;
 
• la chiara  definizione di quali sono i “compiti complementari e di integrazione” che vanno affidati alle Case di Cura Private nelle reti ospedaliere regionali come indicato dal  DM 70/2015 (era previsto nel decreto che entro tre mesi venissero stabilite ”le attività affini e complementari” corrispondenti a quei compiti);
 
• le modalità di coinvolgimento delle Case di Cura in occasione di eventi straordinari come le pandemie;
 
• la condivisione di un sistema che definisca le priorità nella produzione;
 
• la chiara (oggi manca) definizione di come si ripartiscono tra strutture ospedaliere pubbliche e private le unità operative delle diverse discipline attivabili in ciascuna Regione in base ai rispettivi bacini di utenza e in base al ruolo attribuito alle diverse strutture pubbliche e private nella rete.
 
Quest’ultimo punto merita un approfondimento per il quale utilizzerò l’esempio della ortopedia e traumatologia. Questa disciplina nel DM 70 vigente ha un bacino di utenza tra 100.000 e 200.000 abitanti. Essendo prevista in tutti gli ospedali pubblici con Pronto Soccorso il numero di Unità operative pubbliche di ortopedia e traumatologia è molto alto. Ma se si contassero anche quelle private (di solito non conteggiate)  il loro numero complessivo certamente non rispetterebbe superandolo il rispetto dei parametri del DM 70. A titolo di esempio alle Marche  (1,5 milioni di abitanti) spetterebbero fino a 15 Unità operative di questa disciplina, a fronte di circa 13 pubbliche e almeno cinque private.
 
A quel punto si dovrebbero “chiudere” o alcune delle unità operative pubbliche, che però fanno la totalità delle urgenze e fanno parte integrante della organizzazione  dei loro ospedali, o si dovrebbero chiudere alcune delle private, che però fanno gran parte della chirurgia protesica. Nell’incertezza di cosa chiudere … si chiudono gli occhi e si fa finta che il problema non ci sia. E la privatizzazione della ortopedia non striscia più, ma corre. Ecco un buon esempio per fare le prove di una privatizzazione governata.
 
Claudio Maria Maffei

21 febbraio 2022
© Riproduzione riservata


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