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Perché l’Evidence based medicine non vale per le tossicodipendenze?

di Marcello Montibeller

Nonostante le politiche proibizioniste, incapaci di avere un impatto sulla riduzione del consumo di stupefacenti, abbiano avuto un impatto drammatico sulla salute dei pazienti affetti da disturbo da dipendenza, specialmente in termini di malattie trasmissibili, e sul costo sociale della diffusione delle sostanze d’abuso, la politica non sembra tener conto delle evidenze scientifiche che provano il vantaggio oggettivo di un approccio antiproibizionista rispetto a un approccio proibizionista su tutti i descrittori misurabili di danno correlato alla dipendenza

09 GEN -

Siamo nell’epoca della medicina basata su prova di efficacia, o evidence based medicine (d’ora in avanti EBM), come dicono gli autori anglosassoni, e ci siamo dentro per molte, ottime, ragioni. Il movimento EBM, ispirato dalle considerazioni di Archibald Leman Cochrane, si è posto davanti al mondo con un manifesto programmatico di indubbio interesse: fondare le decisioni mediche su un tripode costituito dalla presenza di solide prove scientifiche di efficacia ottenute attraverso studi controllati di elevata qualità, elevata competenza tecnica del medico, pieno accoglimento delle aspettative e dei valori del paziente.

Il modello è talmente persuasivo che si è facilmente impadronito della coscienza medica collettiva e ha segnato un decisivo passo in avanti tanto sull’attendibilità delle terapie quanto sull’inclusione dei pazienti nel modello di cura.

Se si riporta il modello al suo ispiratore se ne coglie anche il valore politico e sociale: per Cochrane il servizio sanitario doveva garantire a tutti gli individui assistenza sanitaria della più alta qualità; questo era il motivo valoriale ispiratore del modello EBM.

Sicuramente il modello epistemologico, un po’ meno le istanze sociali che lo hanno animato, è diventato il riferimento indiscusso per tutta la comunità scientifica. Discorso diverso si apre quando si passa dal concetto di evidence based medicine al concetto di evidence based health-care, e cioè di assistenza sanitaria basata sull’evidenza. Il discorso è diverso perché subentra in maniera preponderante il fatto politico-ideologico. Qui l’evidenza vale, ma a fasi alterne, per così dire: secondo opportunità. Per dirla con gergo popolare: qui si manifesta in modo chiaro l’esistenza di figli e figliastri.

Nell’aprile del 2016 “The Lancet”, ha pubblicato una relazione sulle politiche in materia di stupefacenti dal titolo “Public health and international drug policy”, realizzato dalla The Johns Hopkins–Lancet Commission on Drug Policy and Health, uno studio serio, sistematico, sugli effetti di tali politiche, a cura di un gruppo di studio difficilmente accusabile di essere composto da pericolosi elementi anarcoidi.

Cosa si evince da questo studio? Molte cose massimamente interessanti. Consideriamone alcune.

In primo luogo il fatto che le politiche proibizioniste, incapaci di avere un impatto sulla riduzione del consumo di stupefacenti, hanno invece avuto un impatto drammatico sulla salute dei pazienti affetti da disturbo da dipendenza, specialmente in termini di malattie trasmissibili, e sul costo sociale della diffusione delle sostanze d’abuso, includendo il sistema carcerario e la spirale di aggravamento dei comportamenti criminosi legati proprio alla pena detentiva per i reati cosiddetti minori.

Non è irrilevante il fatto che le malattie, il costo sociale, l’insicurezza, siano vertiginosamente aumentate, in luogo di diminuire, in quelle che chiamiamo “guerre alla droga” nelle aree di produzione.

Queste in sintesi le conclusioni dello studio:

“Le politiche intese a proibire o sopprimere fortemente le droghe presentano un paradosso. Sono descritte e difese vigorosamente da molti responsabili politici come necessarie per preservare la salute e la sicurezza pubblica, eppure le prove scientifiche suggeriscono che hanno contribuito direttamente e indirettamente alla violenza letale, alla trasmissione di malattie trasmissibili, alla discriminazione, allo spostamento forzato, al dolore fisico non necessario e alla lesione del diritto alla salute delle persone. [...]

Gli approcci standard di salute pubblica e scientifici che dovrebbero essere parte della definizione delle politiche sulle droghe sono stati respinti nel perseguimento del proibizionismo. L'idea di ridurre i danni di molti tipi di comportamento umano è fondamentale per le politiche pubbliche nei settori della sicurezza del traffico, della regolamentazione del tabacco e dell'alcool, della sicurezza alimentare, della sicurezza nello sport e nel tempo libero e in molti altri settori della vita umana senza che tali comportamenti siano proibiti o perseguibili per legge.

Tuttavia il tentativo esplicito di ridurre i danni legati alla droga attraverso politiche e programmi fondati sulle evidenze scientifiche e di bilanciare il divieto con la riduzione del danno viene regolarmente contrastato nel controllo della droga.

La persistenza della trasmissione dell'HIV e dell'HCV legata all'iniezione, che potrebbe essere fermata con misure di inclusione sanitaria comprovate ed economicamente vantaggiose, rimane uno dei grandi fallimenti delle risposte globali a queste malattie. Una politica sulle droghe che ignora le ampie prove del proprio impatto negativo e degli approcci che potrebbero migliorare i risultati sulla salute è un male per tutti gli interessati.

I paesi non sono riusciti a riconoscere e correggere i danni alla salute e ai diritti umani causati dal perseguimento del proibizionismo e della soppressione della droga e così facendo hanno trascurato le proprie responsabilità legali. Incarcerano prontamente le persone per reati minori, ma poi trascurano il loro dovere di fornire servizi sanitari nelle strutture di custodia. Riconoscono i mercati illegali incontrollati come conseguenza delle loro politiche, ma fanno poco per proteggere le persone dalle droghe tossiche e adulterate che sono inevitabili nei mercati illegali o dalla violenza della criminalità organizzata, spesso aggravata dalla polizia.

Sprecano risorse pubbliche in politiche che non ostacolano in modo dimostrabile il funzionamento dei mercati della droga e perdono opportunità di investire saggiamente risorse pubbliche in servizi sanitari sostenuti dall'evidenza scientifica per persone spesso troppo spaventate per cercare rifugio nei servizi esistenti”.

Di questi fatti, chiariti inequivocabilmente nello studio, sembra profondamente avvertita la politica di Gustavo Petro in Colombia, consapevole della devastazione umana e ambientale dell’ipocrita guerra ai coltivatori di coca mentre aumenta, insieme alla disperazione, il consumo della sostanza; un lavacro di coscienza fatto di sangue e di miseria per poter poi non affrontare i determinanti sociali della dipendenza.

In secondo luogo lo studio esamina l’efficacia delle politiche di inclusione attraverso la decriminalizzazione, arrivando a concludere che: “Le esperienze concrete di molti Paesi che hanno modificato o rigettato le politiche proibizioniste in risposta alle droghe possono informare la discussione in merito alle politiche sulla droga. Diversi paesi, come il Portogallo e la Repubblica Ceca hanno depenalizzato i reati minori legati alla droga anni orsono, con un significativo risparmi economico, riduzione delle carcerazioni, enormi benefici in termini di salute pubblica e nessun significativo aumento del consumo”.

Fin qui i dati scientifici: ciò che sappiamo e possiamo provare.
E ciò che sappiamo e possiamo provare è il vantaggio oggettivo di un approccio antiproibizionista rispetto a un approccio proibizionista su tutti i descrittori misurabili di danno correlato alla dipendenza. Poi c’è quello che sappiamo ma non possiamo ancora provare: ciò che ogni medico osserva nella sua pratica clinica, ciò di cui possiamo dire, con Pasolini, “so, anche se non ho le prove”: le contenzioni improprie e i trattamenti sanitari obbligatori impropri, l’insufficienza delle risorse destinate al territorio, lo stigma che colpisce, anche tra operatori sanitari, il paziente affetto da disturbo da dipendenza da sostanze perché prevale ancora l’idea che la dipendenza sia una “scelta” e non una patologia cronica recidivante come invece dice, su solidissime basi scientifiche, l’OMS.

Risulta davvero difficile trovare, nelle politiche rivolte al mondo della dipendenza, una qualche traccia di fondatezza sull’evidenza scientifica. Nonostante le chiare raccomandazioni della comunità scientifica, infatti, le politiche continuano a rivolgersi a quel mondo con la principale componente del divieto, dello stigma, della punizione.

La domanda che dobbiamo porci è, semplicemente: perché? Perché ignoriamo verso questi pazienti quelle evidenze che pure abbiamo avuto a cuore, e giustamente, nelle campagne vaccinali, per fare un esempio tra molti?

La questione è ovviamente complessa e travalica ciò che può essere affrontato nel breve spazio di queste riflessioni, eppure è evidente che lo stigma sociale verso una patologia riconosciuta (il disturbo da dipendenza è tale), il suo ingresso nel senso comune (mai bestia concettuale fu più pericolosa per la filosofia politica), ne fanno una questione di consenso.

Quando abbiamo a-moralizzato, dopo Franco Basaglia, la patologia psichiatrica, abbiamo aperto in questo Paese una via verso un percorso medico per i pazienti; al netto degli investimenti sempre insufficienti, abbiamo almeno potuto immaginare un percorso compiuto e completo: gli SPDC nelle fasi di acuzie, la gestione territoriale con i DSM, le case-famiglia, eccetera.

Un tale percorso non si è purtroppo prodotto per il mondo del disturbo da dipendenza. Si è prodotta solo una lunga serie di abbandoni.

Sono stati eliminati, per esempio, i posti letto per la tossicologia clinica; ora, è assolutamente discutibile che la soluzione del problema sia di tipo ospedaliero ma, ci ha insegnato Cassirer, l’uomo è animale simbolico, sicché i simboli contano, e parecchio: l’eliminazione senza alternativa, ma solo per ragioni di spesa, di quello che pure era un fragile e raro servizio ospedaliero è a ogni modo un simbolo che equivale a dire a questi pazienti “per te non c’è posto” o, se vogliamo, “tu non vali la spesa”.

Passiamo dunque alla situazione del territorio, che è il luogo più appropriato per la gestione del disturbo: ci sono i Servizi per le Dipendenze (SERD, d’ora in avanti), dove i colleghi svolgono un egregio e, diciamolo pure, eroico lavoro al servizio di questi pazienti, lamentando tuttavia una grave carenza di organico, sia per gli scarsi investimenti, sia perché i posti banditi a concorso non sono considerati “appetibili”, posto che il SERD viene ingiustamente vissuto come una specie di luogo di confino da molti professionisti.

Nell’abbandono si giunge all’emergenza e, nei Dipartimenti di Emergenza e Accettazione, nei Pronto Soccorso, manca qualsiasi formazione dedicata alla gestione di questi pazienti che poi finiscono il più delle volte ricoverati in ambiente psichiatrico (SPDC) con la scusa della doppia diagnosi che in realtà è la foglia di fico sull’assenza di uno spazio dedicato.

Se ne ricava che, se il tema non è curare, allora il tema è punire: il 35% della popolazione carceraria è tossicodipendente; molti di coloro che non lo sono già all’ingresso lo diventano, per l’uso di psicofarmaci che richiedono per tollerare le disumane condizioni di detenzione. Un circolo vizioso.

Un circolo vizioso, per dirla meglio, che si costruisce sulla pelle di questi pazienti, percepiti non come malati bisognosi di assistenza, bensì come colpevoli, perciò indegni di cura e, in particolare, indegni di cura per categoria; il nazismo aveva coniato una parola per queste categorie di persone: Lebensunwertes Leben, vite indegne di essere vissute. Con questo sentimento, con la paura, la diffidenza, l’umiliazione, la rabbia che ne derivano, si pongono ogni giorno davanti a noi questi pazienti.

Taluni hanno l’ulteriore sfortuna di incontrare qualche collega con malriposta vocazione pedagogica: non si somministra volentieri il metadone, o la benzodiazepina, perché “il paziente è venuto solo per quello, per averli”, come se la sindrome astinenziale non fosse, appunto, una sindrome, come se, mutatis mutandis, fosse normale non somministrare terapia antalgica a un paziente con una colica renale perché “vuole proprio quella, è per avere quella che è venuto”; il loro dolore, evidentemente, è meno dolore di quello degli altri, in un sadico ribaltamento della prospettiva orwelliana. Evidentemente si pensa che sottodosare un farmaco impartisca una lezione, solo che non si pensa a quale lezione atroce impartisce e a quale divario alimenta tra il paziente e la comunità.

Verrebbe da dire che in Italia non si è mai aperta una strada di indagine del fenomeno in prospettiva medica e sociale, eppure non è così: dagli studi neurobiologici di Gessa alla lettura acutissima di Cancrini sulla dipendenza come autosomministrazione di una compensanzione a una richiesta di aiuto non ascoltata, il nostro Paese è stato un’eccellenza nella comprensione del fenomeno.

Eccellenza sperperata da una politica che, invece di formare le basi razionali del consenso, ne segue in modo prono gli andamenti, come se, ancora una volta, questi andamenti non fossero l’esito di una pregressa azione del Potere sulla coscienza collettiva ma un ineludibile fatto di natura; non poteva certo essere dimenticata in modo peggiore la lezione di Habermas secondo cui il consenso non è in nessun modo un criterio di verità mentre, semmai, è il processo di ricerca della verità a poter sottrarre la formazione del consenso dai meccanismi della manipolazione.

Mentre la ricerca della verità latita nel processo politico, i pazienti continuano a soffrire, come vite indegne di essere vissute.

Marcello Montibeller
Dottore di Ricerca in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane
Medico di Medicina d’Urgenza



09 gennaio 2023
© Riproduzione riservata


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