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L’autonomia differenziata: pericolo o propaganda? L’esperienza della sanità aiuta a rispondere

di Claudio Maria Maffei

Se si tiene conto di tutto questo nel dibattito sulla autonomia differenziata verrebbe da dire alla romana: “ma de che stamo a parlà, se dove siamo più avanti, la sanità, siamo così indietro!”.

25 GEN -

L’approvazione da parte del Senato del disegno di legge sulla autonomia differenziata, riportato e commentato qui su Qs due giorni fa, ha rilanciato il dibattito su questo tema e sono numerosi gli interventi anche su giornali generalisti che riportano analisi e commenti sul rischio che l’autonomia regionale differenziata sancisca la fine del Servizio Sanitario Nazionale, già in crisi di suo. A solo titolo di esempio, oggi la Stampa titola “Autonomia, sanità a rischio”. Per parte mia.

Vorrei fare una breve riflessione sulla esperienza accumulata in sanità in oltre venti anni di autonomia regionale diffusa e “accentuata”, anche se ancora non differenziata. Tanto “accentuata” che uno dei luoghi comune sulla sanità italiana è che non ce n’è una, ma ventuno quante sono le Regioni e le Province.

L’autonomia delle Regioni in sanità, che trova il suo inizio nel 2001, ha già dentro tutti gli elementi caratterizzanti la fase preliminare e cruciale dell’autonomia differenziata: la determinazione per ciascuna delle materie interessate dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, LEP, assieme ai relativi costi e fabbisogni standard e la costruzione di un sistema di monitoraggio. In pratica, perché l’effettivo processo di devoluzione col trasferimento di ulteriori competenze dallo Stato alle Regioni possa partire bisogna “prima” bisogna avere definito bene quali siano gli standard di servizio da garantire nelle tante materie in gioco (nel commento di QS sono 15 e riguardano tra gli altri oltre alla sanità la istruzione, la tutela dell'ambiente e la ricerca scientifica), quantificare (e, per logica, erogare) le risorse necessarie per garantirle e poi costruire un sistema che verifichi che la devoluzione avvenga senza intaccare i servizi. Bene, vediamo cosa è successo nella sanità con i LEA e quindi con la loro definizione, la loro valorizzazione e il loro monitoraggio. Se si vuole sperimentare l’autonomia differenziata, tanto vale partire dopo avere analizzato la esperienza della autonomia regionale in sanità, una delle materie più critiche, se non la più critica, tra quelle candidate alla possibile devoluzione.

Si può tranquillamente e soprattutto in modo documentato affermare che quella dei LEA e della autonomia regionale in sanità è una esperienza che ha ancora dopo oltre venti anni enormi criticità. Vediamone solo alcune: sono molto difficili da definire, sono molto difficili da monitorare, sono erogati con forti livelli di disomogeneità e non sono adeguatamente finanziati, o ancor meglio e ancor prima, non si dispone di un sistema che ne quantifichi le necessità in termini di finanziamento.

Cominciamo dalla definizione dei LEA o LEP che dir si voglia. Possiamo dare per scontato, faccio solo uno dei tantissimi possibili esempi, che ogni Regione abbia servizi dedicati alle demenze. Ma quali servizi, quanti in rapporto alla popolazione e con quali risorse non è stato definito se non in via del tutto indicativa e non vincolante nel Piano Nazionale Demenze. Talmente poco vincolante che qui su Qs sono stati riportati pochi giorni fa i risultati di una indagine dell’Istituto Superiore di Sanità che ha documentato come la quota di Centro per i Disturbi Cognitivi e le Demenze con applicazione di un percorso strutturato di presa in carico raggiunga quote molto basse nei territori del Sud e isole (con il 27,1%), con un incremento al centro (48,8%) e valori più alti al Nord (68,8%). L’elenco dei LEP o LEA che sono diventati LIP (Livelli Immaginati di Assistenza) è lunghissimo, perché i famosi “standard di servizio” sono molto difficili da costruire e ancor più da garantire persino in sanità in cui c’è una lunga tradizione di lavoro sul tema della qualità dei servizi e ci sono organismi tecnici come l’Agenas molto attrezzati al riguardo.

Poi il monitoraggio: il Ministero lo fa su un numero limitato di servizi (non su quelli già citati per le demenze ad esempio) con un sistema di indicatori, come quello del Nuovo Sistema di Garanzia, assolutamente inadeguato in settori chiave come la salute mentale. La disomogeneità tra Regioni nell’erogazione dei LEA, o LEP o LIP è enorme ed emerge non tanto dai sistemi di indicatori ministeriali, quanto dalle analisi di settore come quelle sulla salute mentale, i consultori, i già citati servizi per le demenze, i percorsi di presa in carico della cronicità, le reti cliniche a partire da quella oncologica e così via.

Colmare questa disomogeneità “prima” di far partire la autonomia differenziata richiederebbe una capacità di definire i costi standard (e quindi di quantificare le risorse necessarie per una adeguata tutela della salute dei cittadini) che manca assolutamente tanto è vero che le ultime Regioni benchmark identificate per il loro calcolo sono state identificate in base ai dati 2018. Il rischio in questa situazione è che i LEA diventino i LAC (i Livelli di Assistenza Compatibili) visto che per ora l’autonomia differenziata non ha copertura economica e che il nostro Ssn continua a essere sottofinanziato.

Se si tiene conto di tutto questo nel dibattito sulla autonomia differenziata verrebbe da dire alla romana: “ma de che stamo a parlà, se dove siamo più avanti, la sanità, siamo così indietro!”. Nel dubbio se questo Ddl sia un pericolo o propaganda elettorale mi viene da rispondere che è probabilmente l’uno e l’altro. Sicuramente è propaganda elettorale, ma se poi chi lo propone vincerà sicuramente l’autonomia differenziata andrà in qualche modo avanti. E probabilmente lo farà con LEP mal determinati, non monitorati e non finanziati. Il che si tradurrà in quello che nessuno dice di volere: l’aumento dei divelli di diseguaglianza sociale anche su base regionale.

Claudio Maria Maffei

Coordinatore Tavolo Salute Pd Marche



25 gennaio 2024
© Riproduzione riservata


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