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Covid-19. Meglio un Ssn basato sulla “Patient Centered” o sulla  “Community Centered”

di Fabrizio Gianfrate

Attenzione: non è una semplice distinzione tra ospedale e territorio, ma un approccio programmatorio e organizzativo trasversale all’intera offerta sanitaria. Volgarizzando per semplicità: la “patient” incentra il sistema sui bisogni sanitari del singolo paziente la “community” su quelli della collettività

31 MAR - Perché in Lombardia, una tra le aree più ricche ed industrializzate in Europa, con eccellenti strutture e professionisti sanitari, il Covid-19 si è così diffuso e soprattutto con una letalità quadrupla rispetto ad altre zone in Italia e nel mondo? In molti ne hanno autorevolmente analizzato e commentato.
 
Da economista sanitario ho provato a teorizzare la questione mettendo a punto un’equazione funzione di tante e diverse variabili nel rapporto tra numero di decessi e numero di contagiati, sovraccarico ospedaliero, scarsa prevenzione e diagnostica sul territorio e altro. Chi fosse interessato la può trovare qui.
 
Per chi invece non ama troppo l’algebra differenziale, e per una riflessione meno analitica e più di sistema, meno di numeri e più di parole, vorrei partire da quanto scrivono al NJEM gli eroici medici Bergamaschi del Giovanni XIII, in particolare delle terapie intensive.
 
Così riassumibile in una mia (indegna) sintesi: nell’emergenza il sistema nel suo complesso (ospedali e servizi connessi, pronti soccorso, ambulanze, RSA, ecc.) sebbene eccellente nell’insieme e nelle sue singole componenti in tempi normali, si è dimostrato “inadatto” nell’imprevedibile dimensione e gravità della pandemia, persino paradossalmente con alcune sue componenti divenute vettori della diffusione del virus stesso. Così eccellenti strutture con eccellenti professionisti contano una letalità da Paese arretrato.
 
Perché la sanità “migliore” d’Italia, al top in Europa, conta la più elevata percentuale di morti da Covid-19 del mondo? Una risposta, come pure sostiene quella lettera al NEJM, può essere nel modello di organizzazione dei servizi stessi, tra ospedale (molto) e territorio (poco) e nelle sinergie mancate tra essi tanto nella diagnostica che nella prevenzione, incrementando sia la diffusione della malattia che il conseguente sovraccarico assistenziale nelle strutture nosocomiali. Un sistema basato troppo sulla “patient centered care” mentre avremmo avuto bisogno di maggiore “community centered care”.
 
Attenzione: non è una semplice distinzione tra ospedale e territorio, ma un approccio programmatorio e organizzativo trasversale all’intera offerta sanitaria. Volgarizzando per semplicità: la “patient” incentra il sistema sui bisogni sanitari del singolo paziente la “community” su quelli della collettività.
 
Le due definizioni ovviamente non esprimono concetti polarmente antitetici o alternativi ma in parte sovrapponibili, banalmente essendo la comunità l’insieme dei singoli, la differenza è data dalla discriminante nella distribuzione e allocazione più o meno equa delle risorse, e nella conseguenza attuazione organizzativa ed operativa, tra i modelli ideali che ognuna di esse esprime.  
 
Idealmente, il modello “patient centered” risponde maggiormente all’etica ippocratica (“qualunque sforzo per il paziente”) ed è più fisiologico, per evidenti ragioni, nei Paesi più tradizionalmente cattolici
 
Quello “community centered” risponde all’etica dei sistemi di assistenza pubblici (“il più equo sforzo possibile per tutti i pazienti”) quindi più vicino ai Paesi anglo-luterani. Vedi le prime dichiarazioni del premier britannico Johnson su centinaia di migliaia di morti necessari per ottenere la “herd immunity”, immunità di gregge, forse aveva appena letto un romanzo distopico di Aldous Huxley con tanto di malthusianesimo darwinista al limite dell’eugenetica.
 
Operativamente la “patient” si esprime al suo massimo qualitativo prevalentemente nella struttura ospedaliera e specialistica, quale apice della cura, “la community” invece si realizza proporzionalmente più sul territorio, prevenzione inclusa (una voce di spesa per la quale l’Italia è da sempre uno degli ultimi Paesi OCSE).
 
A tale proposito la “community”, rispetto alla “patient” che è più indirizzata alla diagnosi e cura del singolo, meglio si integra con le possibili sinergie decisionali e organizzative tra sanità e società (ed anche ambiente), vedi appunto certe misure di prevenzione epidemiologica che nelle aree più colpite della Lombardia sono inizialmente difettate.
Queste invece adottate in modo sinergico in altre aree geografiche, vedi la Germania dei Lander, dove grazie alle azioni preventive sul territorio, hanno abbattuto i ricoveri in terapia intensiva e quindi il numero dei decessi. Ma anche nell’integrazione socio-sanitaria più presente in alcune Regioni Italiane, vedi il Veneto o la Toscana e, in parte, anche il Lazio.
 
La “patient” mette al centro dell’offerta la figura professionale del medico che produce ed eroga prestazioni per il paziente, ed il management per gestirne domanda, offerta e spesa. La “community” coinvolge maggiormente anche epidemiologi ed esperti di programmazione ed organizzazione dei servizi, comprese tematiche di igiene e prevenzione ambientale, naturaliter collettive.
 
La “patient” è per caratteristiche più eleggibile in contesti di finanziamento e/o erogazione da privati, essendo fisiologicamente disegnata nel rapporto individuale col singolo, la “community” è invece intrinsecamente più consone al servizio pubblico avendo come obiettivo il beneficio collettivo.
 
E la Lombardia è appunto la Regione con spesa ed erogazione private di gran lunga più elevate in Italia, cosa che ha appunto storicamente rafforzato il modello “patient centered”, infatti ben funzionante in tempi normali. La pur interessante riforma Lombarda dell’assistenza per le cronicità resta comunque, per impostazione ideologica e attuazione operativa, nell’alveo della “patient centered care”, essendo comunque imperniata sulla gestione one-to-one del singolo paziente con le proprie cronicità.
 
Quindi quale modello domani? Il dopo pandemia genererà inevitabili reazioni nelle politiche sanitarie dei Paesi industrializzati, influenzate dal fardello di nuovi debiti sulle finanze pubbliche, ma certamente anche una diversa visione nel modello strutturale in cui allocare le risorse per la sanità e i suoi comparti.
 
In ogni caso, qualunque revisione futura dei sistemi di assistenza, anche in forza delle moltiplicate opportunità che intelligenza artificiale e digital health andranno inevitabilmente nella direzione di incrementare modelli di “community centered care”.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria


31 marzo 2020
© Riproduzione riservata


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