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Post-Covid: il futuro del modello sanitario lombardo, liberista nel corpo e dirigista nella testa

di Fabrizio Gianfrate

Un modello basato sull’offerta privata è per propria natura meno reattivo ad un cambiamento improvviso imposto dall’emergenza, perché significa per gli operatori privati dovere alterare in modo imprevisto il proprio modo di “produrre” e quindi il proprio consolidato business, cosa a volte materialmente impossibile o comunque molto difficile da effettuare, pure foriera di perdita di profitto, antitesi di qualunque intrapresa privata.

11 GIU - Tra i tanti misteri del così diverso impatto del Covid tra le diverse Regioni, segnatamente nefasto in Lombardia, uno dei possibili sospetti cade inevitabilmente sul suo modello di assistenza sanitaria “liberista”.
 
Terziarizzazione dell’offerta, parificazione della privata, libera scelta del cittadino, concorrenza tra erogatori, separazione tra questi e chi paga. Come nei modelli mutualistici bismarckiani o in quelli di “risk sharing” assicurativo la competizione nell’offerta accresce l’efficacia e l’efficienza nel sistema. In Lombardia con spesa privata aggiuntiva del 40% a quella SSN ad alleviarne il carico della domanda aggregata.
 
Un modello “liberista” che porta “naturaliter” a preferire i servizi più redditizi, ad esempio ospedalità e specialistica, a danno di quelli a basso profitto, ad esempio l’assistenza territoriale, invece utili a frenare la pandemia (ne ho commentato qui su QS già a marzo).
 
Assistenza territoriale, appunto finora negletta, ma che la recente, ancora incompiuta, riforma delle cronicità tenderà a privatizzarne l’offerta, in particolare l’assistenza primaria, rendendo anche questa profittevolmente più attrattiva.
 
Non solo. Un modello basato sull’offerta privata è per propria natura meno reattivo ad un cambiamento improvviso imposto dall’emergenza, perché significa per gli operatori privati dovere alterare in modo imprevisto il proprio modo di “produrre” e quindi il proprio consolidato business, cosa a volte materialmente impossibile o comunque molto difficile da effettuare, pure foriera di perdita di profitto, antitesi di qualunque intrapresa privata.
 
In altre regioni la pianificazione-programmazione è incentrata invece sull’offerta pubblica, quindi sia meno incline a privilegiare prestazioni più profittevoli, ovvero maggiormente conservativa dei servizi territoriali, sia più direttamente gestibile e perciò adattabile a condizioni impreviste.
 
E ancora. Associando a quel modello una governance dall’elevata pervasività decisionale si genera un combinato disposto “ossimoro”, un ircocervo con corpo liberista ma testa dirigista, che ne inficia la flessibilità gestionale e operativa, come invece necessario nella risposta urgente all’emergenza
 
A tale aspetto si legano indirettamente le difficoltà ad adottare decisioni drastiche, come le balbettanti chiusure di certe zone rosse, impopolari per il proprio elettorato di riferimento, specialmente quello economico e produttivo, vedi il rimpallo con il Governo su chi (non) dovesse assumerne la pesante responsabilità, concorrenza legislativa tra Stato e Regioni quale nodo federalista mai del tutto risolto.
 
Una chimera, quell’ibrido liberista-dirigista, dai molti rischi distorsivi, soprattutto nell’integrazione verticale tra decisore-pagante ed erogatore privato, se legati da comune appartenenza o “vicinanza”, in passato persino confessionale (l’eclittica da San Raffaele a San Vittore passando per le Madonne degli altarini nei super-yacht caraibici)
 
“Difetti” del modello declamati ora anche da molti prima suoi cantori (magari con “tocco” accademico privato-parificato come la sanità prima propugnata) Immancabili “partigiani del 26 aprile”.
 
Dei suddetti “caveat” si trovano esempi emblematici spigolando tra le cronache, sul flop dell’ospedale in Fiera o ancora di più sul caso delle RSA “invitate” ad ospitare pazienti Covid deospedalizzati. C’è il manager della pubblica che spalanca i cancelli, rimirando la sua amata Chester. A quello dissenziente invece la sua “cadrega” l’hanno tolta subito. Un altro non fa mettere le mascherine per non creare “allarmismi che ci nuocerebbero”. Un altro ancora, epigono di Alì il Chimico, rassicura i media mentre alle spalle gli si accumulano le bare.
Poi c’è quella privata che accetta obtorto collo per conservare l’accreditamento. L’altra invece conta i “danee” dei 150 euro in più al giorno a paziente. Un’altra ancora li massimizza tagliando i costi di isolamento.
 
Comportamenti leciti, sia chiaro, ma certamente non i più idonei al caso. Figli dei molti “moral hazard” del corpo liberista e dai pochi “check and balances” della testa dirigista.
Col in sottofondo il ronzio monotòno della comunicazione istituzionale, non capisci quanto spuria tra informazione e propaganda, o quanto segnata da inconsapevole effetto Dunning-Krueger.
 
Di sicuro però c’è che alla fine i morti sono 25mila. Una Caporetto. Lì di morti ne bastarono la metà per diventare simbolo di tragica sconfitta epocale
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria

11 giugno 2020
© Riproduzione riservata


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