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Robotica. La storia della prima donna paraplegica che è riuscita a mangiare da sola


Si chiama interfaccia neurale ed è la tecnologia che ha permesso a Jan Sheuermann, 53enne paraplegica statunitense, di muovere un braccio robotico col pensiero e mangiare una tavoletta di cioccolato da sola. L’esperimento, unico nel suo genere, è stato condotto a Pittsburgh ed è raccontato sulle pagine di The Lancet.

18 DIC - Portare la forchetta alla bocca e mangiare è un gesto quotidiano che la maggior parte delle persone dà per scontato. Per Jan Scheuerman, 53enne di Pittsburgh, non lo era più da diversi anni, dopo che 13 anni fa le era stata diagnosticata una degenerazione spinocerebellare che l’aveva portata a perdere l’uso degli arti. Eppure, oggi Jan può afferrare una tavoletta di cioccolato fondente, portarla alla bocca e nutrirsi da sola. Come? Grazie a un braccio robotico che può essere controllato dal suo stesso cervello, che la rende la prima persona tetraplegica al mondo a poter mangiare da sola, e portare a termine alcune semplici e più complesse mansioni manuali. La storia è raccontata in un articolo su The Lancet, e ha già fatto il giro del mondo.
 
“Un piccolo boccone per una donna, un grande morso per l’interfaccia neurale”, ha definito lei stessa l’importante risultato. E in effetti così sembrerebbe, anche dalle parole di Andrew B. Schwartz, coordinatore del team statunitense che ha pubblicato il lavoro sulla rivista inglese: “Si tratta di uno spettacolare salto in avanti verso la maggiore indipendenza delle persone che non possono muovere le loro mani – ha detto il docente della Pitt School of Medicine – e questa tecnologia, che interpreta i segnali cerebrali per manovrare il braccio robotico, ne è il trampolino. L’interfaccia neurale apre nuove speranze fino a poco fa inimmaginabili”.
 
Perché questo evento potesse avere luogo a febbraio di quest’anno Jan ha dovuto subire un intervento per inserire due piccoli elettrodi, di 4 millimetri di lato e con 96 aghi ognuno (che funzionano contatti elettrici), nelle regioni del cervello che normalmente controllerebbero i movimenti della mano e del braccio destri. “Per poter trovare queste zone abbiamo scansionato il cervello della nostra paziente con strumenti di imaging funzionale, e allo stesso modo abbiamo dovuto agire anche durante l’operazione”, hanno spiegato i medici che hanno portato a termine con successo l’intervento. In questo modo la donna è riuscita a controllare il braccio, costruito dall’Applied Physics Lab della Johns Hopkins University.
Gli elettrodi captano segnali da neuroni individuali e al suo interno alcuni algoritmi identificano i segnali associati a un particolare movimento – immaginato o visto – come alzare o abbassare il braccio, o ruotare il polso. Dopo l’impianto gli scienziati hanno verificato il funzionamento dei due elettrodi semplicemente osservando i segnali elettrici nel cervello: “Potevamo osservare direttamente i neuroni che si accendevano quando lei pensava di chiudere il pugno, e quando smetteva di pensarlo quelli si spegnevano. È stato a quel punto che abbiamo capito che poteva funzionare, che potevamo riuscire nell’impresa”, ha spiegato Jennifer Collinger, autrice principale dello studio.
 
E in effetti, nel giro di una settimana, Jan aveva già imparato a spostare il braccio – cui lei stessa ha dato nome Hector – avanti e indietro, e a destra e sinistra. “Siamo riusciti a fare in una settimana quello che pensavamo di fare in un mese”, ha spiegato la donna. In meno di tre mesi sapeva muovere il polso, ruotarlo in senso orario e antiorario, spostare il braccio da una parte all’altra e afferrare oggetti. Quello che gli scienziati chiamano controllo 7D.
 
Ma gli scienziati hanno già in mente il prossimo step. Se ora infatti la comunicazione tra braccio e cervello è possibile solo in un senso, l’interfaccia neurale potrebbe prima o poi permettere anche di stimolare i giusti neuroni perché il paziente possa anche avere informazioni sensoriali, tattili, cosicché possa scegliere se afferrare con sicurezza la maniglia di una porta o afferrare con più delicatezza il guscio di un uovo. “E a quel punto potremmo riuscire a sviluppare delle protesi completamente funzionanti, sistemi wireless che i pazienti potrebbero usare direttamente a casa, senza la nostra supervisione”, ha spiegato Collinger.
Per ora, gli scienziati continueranno insieme alla signora Scheuermann a testare la tecnologia neurale usata per altri due mesi, e poi l’impianto verrà rimosso. “È il mio Gran Premio”, ha detto. “Sono le mie montagne russe. È la mia sessione di paracadutismo. Insomma, è una cosa favolosa, e mi godrò fino all’ultimo secondo di essa”.
 
Laura Berardi
 
Guarda il video della Pittsburgh University:
 

18 dicembre 2012
© Riproduzione riservata

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