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Biotestamento e consenso informato. Le (poche) luci e i (molti) coni d’ombra del ddl

di Fabio Cembrani

Composto da molte voci, più o meno organizzate, spesso confuse, poco equilibrate. Il risultato finale non è soddisfacente e conferma le ampie divisioni esistenti nel nostro Paese e l’incapacità perdurante della politica di legiferare nella falcidia di una maggioranza che si regge sui difficili equilibri delle larghe intese, sulla crisi economica e sui fenomeni migratori

17 APR - Introduzione
È notizia recente che oltre 4 mila persone hanno firmato una petizione pubblica, inviandola al Presidente della Camera (on. Paolo Grasso) ed a quello del Senato (on. Laura Boldrini), chiedendo la rapida approvazione del disegno di legge (d.d.l.) “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari” nella versione approvata dalla Commissione il 2 marzo 2017.
 
Di esse, gli organi di stampa hanno pubblicizzato i nominativi dei personaggi di maggior spicco (molti anestesisti e palliativisti) ed i ruoli ricoperti: 1.144 medici, 661 infermieri e 2.065 professionisti (non meglio esplicitati) appartenenti ad altre aree professionali.
 
Nel breve testo di accompagnamento alla petizione si parla di “intollerabile vuoto legislativo” che renderebbe “ingestibile il rapporto tra il malato alla fine della vita, la sua famiglia e l’équipe sanitaria”, si afferma che “eutanasia e cure alla fine della vita rappresentano due temi che devono rimanere tali anche nella discussione” e si conclude che il progetto di legge in discussione è “scientificamente corretto, equilibrato e rispettoso di posizioni etiche anche distanti tra loro” rappresentando  “un’occasione che non deve essere perduta”.
 
Per quanto ne so, la petizione è girata nel mondo medico con il passa parola o, senza offendere nessuno, attraverso la pervasività della catena di Sant’Antonio tipica del virtuale essendo giunta anche a me con un SMS nonostante le mie posizioni siano note al mondo professionale avendole già espresse pubblicamente ed essendo uno tra i firmatari del Manifesto-appello che il Cortile dei Gentili ha rivolto al mondo della politica.
 
Ho declinato gentilmente l’invito scrivendo alla mia interlocutrice che il d.d.l., anche nella sua ultima versione, è una pessima legge ricevendo quasi immediatamente una risposta che, più o meno, suonava così: “Meglio una brutta legge che il nulla”.
 
Non ho risposto per pudore a questa espressione di ignoranza elementare anche se non è la prima volta che mi viene rivolto questo rimprovero essendo nel passato stato cortesemente invitato ad inviare ad un’altra Rivista il mio commento critico al parere del Comitato nazionale per la bioetica sulla sedazione terminale profonda per non creare incidenti di percorso tra quella Società scientifica (che evito di indicare) e l’Organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri visto che, a giudizio dell’allora mio interlocutore, quella presa di posizione  era all’avanguardia potendo aprire la porta all’entrata, nel nostro ordinamento, dei diritti infelici[1] (il suicidio assistito e l’eutanasia).
 
Che si tratti di una coincidenza fortuita o di situazioni tra loro indipendenti non lo posso sapere anche se trovo davvero strano che entrambi  i rimproveri mi siano stati mossi riguardo ad un tema davvero complesso quale è il fine vita per le poco conciliabili opzioni morali che entrano tra loro in contrasto[2] come conferma, purtroppo, il confuso dibattito mediatico oggi in corso.
 
Che ha cercato, irresponsabilmente e colpevolmente, di mettere in relazione il d.d.l. in discussione con le drammatiche vicende umane di Fabiano Antoniani, di Gianni Trez e di Davide Trentini che con quella proposta di legge nulla hanno però a che vedere limitandosi essa a disciplinare il consenso (ed il dissenso) informato, le dichiarazioni anticipate di trattamento e la pianificazione anticipata della cura.
 
I contenuti del disegno di legge
L’art. 1 del d.d,l. valorizza il principio personalistico della nostra Costituzione (ripreso dalla Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, dalla Convenzione di Oviedo e da tutti i Codici deontologici delle professioni sanitarie) e, con esso, la libertà di cura (art. 32 Cost.) non interferita da interessi ad essa estranei.
 
L’esercizio di questa libertà pretende, naturalmente, il diritto di essere informati (art. 1, comma tre) e questo è un diritto ampio, che coinvolge anche i minori e le persone con disabilità intellettiva o cognitiva fermo restando il diritto della persona di delegare a terzi l’informazione confermato dal Codice di deontologia medica e dalla Convenzione di Oviedo (art. 10) il cui processo di ratifica non è però mai giunto a conclusione per una (a questo punto) precisa (anche se mai dichiarata) volontà politica. 
 
E la cui esigibilità richiede, evidentemente, tempi e luoghi dedicati non sempre riconosciuti dai sistemi performanti della sanità italiana dovendo essere difesa l’idea che la comunicazione è un tempo e, molto spesso, anche un luogo straordinario di cura (art. 1, comma 9) in cui si devono pur incontrare le autonomie, le responsabilità e le umanità del care.
 
Che non richiedono però di essere radicalizzate prevedendo che la volontà della persona debba essere sempre raccolta in modalità scritta (art. 1, comma 4) perché questo modo di procedere,  associato alla previsione che il consenso ed il dissenso così documentati esonerano il medico da qualsiasi ipotesi di responsabilità civile e penale (art. 1, comma 7), andrà pericolosamente a burocratizzare la relazione di cura, tradendo le sue stesse finalità: che sono quelle di costruire un’alleanza prioritariamente umana le cui architravi portanti sono il riconoscimento reciproco, il paritario rispetto e la condivisione del certo e dell’incerto che non deve però mai degenerare nella (pre)costituzione di cause di giustificazione per non avere guai di natura giudiziaria.
 
Il consenso non è così la raccolta di una firma olografa su un modulo di carta prestampata in cui sono di regola enfatizzati i rischi  ma la conclusione - mai ipostatica - di un processo fluido e dinamico che, attraverso la comunicazione (verbale e non), pretende di costruire un’alleanza fiduciaria che non si dinamizza certo con l’enunciazione in chiave difensiva dei rischi ma attraverso l’incontro di autentiche umanità le quali si riconoscono e si alimentano reciprocamente attraverso la lealtà ed il pieno rispetto delle singole autonomie e responsabilità. Che non si esauriscono in un modulo, in una firma o in una videoregistrazione (art. 1, comma 4) storicizzandosi nel processo comunicativo e nella sua graduale e progressiva costruzione.
 
Ciò detto, è pienamente da condividere che nutrizione ed alimentazione artificiali sono misure terapeutiche e non misure di sostegno di base (art. 1, comma 5), che anche questi trattamenti sono legittimi solo con il consenso della persona e nel caso in cui essi non trasbordino nell’accanimento o nella futilità terapeutica, che il consenso può essere sempre revocato dalla persona che può anche chiedere di interrompere trattamenti già iniziati (come nel caso di Piegiorgio Welby) e che il rifiuto di cura non deve mai essere causa o motivo di abbandono nel senso che al malato devono essere comunque prestate le palliazioni necessarie (terapeutiche, spirituali ed umane) a dare un contenuto pratico alla dignità del morire (art. 1, comma 6).
 
Non convince, invece, l’idea che le condizioni di legittimità del consenso siano la maggiore età e la capacità di intendere e di volere (o di agire) della persona (art. 1, comma 5): non solo perché, a livello internazionale, il minore ha ottenuto da tempo immemore un suo pieno riconoscimento giuridico (così la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo) ma soprattutto perché la capacità di intendere e di volere è una categoria giuridica che discrimina i malati (quelli psicogeriatrici soprattutto) degradandoli ad un oggetto, privato di qualsivoglia libertà all’esercizio attivo dei propri diritti.
 
Perché anche questi malati sono persone in senso pieno e perché, in non rari casi, le persone giuridicamente incapaci sono in grado di assumere decisioni morali in piena autonomia che devono essere rispettate a patto di non voler violentarne la dignità e la loro identità biografica.
 
L’art. 2 del d.d.l. affronta la situazione in cui le persone sono minori o incapaci ed il ruolo del tutore, del curatore e dell’amministratore di sostegno che, tuttavia, richiedeva di essere meglio e più opportunamente esplicitato; dovendo queste figure di rappresentanza giuridica attualizzare il best interest della persona, non potendo esse opporsi a terapie mediche se realizzate nell’interesse di salute della persona in tutte le situazioni di fragilità.
 
Interesse che deve essere onorato dal medico nella sua posizione di garanzia,  con la conseguenza che la previsione di coinvolgere, in caso di contrasto tra il professionista ed il fiduciario (quando e se nominato), il giudice tutelare non è né convincente né ragionevole.
 
Non solo per i tempi della giurisdizione che, purtroppo, non sono sempre conciliabili con gli interessi di salute della persona ma anche perché questa scelta mette in discussione il ruolo che il medico assume in ogni relazione di cura. 
 
Subordinare l’autonomia professionale al giudizio della giurisdizione ordinaria rendendolo, per così dire, indipendente dagli interessi di salute della persona è, a mio modo di vedere, un pericolosissimo attentato alla autonomia del sapere scientifico riconosciuta dalla nostra Carta costituzionale.
 
Fermo restando che il richiamo operato dal d.d.l. (art. 1, comma 7) al rispetto delle sole “buone pratiche clinico-assistenziali” non coincide con le previsioni contenute nella nuova legge sulla responsabilità professionale (legge Gelli-Bianco) la quale le subordina alla carenza delle linee guida approvate nelle forme di legge.
 
Gli artt. 3 e 4 del d.d.l. trattano, infine, separatamente, del diritto della persona a depositare la sua volontà anticipata riguardo a future possibili opzioni di cura e della pianificazione anticipata delle cure.
 
Condividendo la distinzione tra la volontà formalizzata anticipatamente da una persona sana e quella, invece, di chi la esprime in quanto persona ammalata riguardo ad opzioni di cura ragionevolmente prevedibili, accanto alle perplessità dell’etimo su cui ritornerò tra un attimo, restano vitali le preoccupazioni riguardo ad alcune questioni di sostanza.
 
Fermo restando che l’art. 4 avrebbe dovuto parlare di direttive anticipate di trattamento e non già di disposizioni anticipate di trattamento, preoccupano, infatti, le modalità della loro acquisizione (“Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata”) e deposito, essendo previsto il loro inserimento in quella banca dati che ogni Regione dovrà appositamente costituire (art. 3, comma 7).
 
Il d.d.l. non si accontenta, così, della redazione olografa della volontà anticipata che può essere direttamente consegnata al medico dalla persona medesima o dal fiduciario essendo prevista la sua redazione con  la forma della scrittura privata e dell’atto pubblico che, nel borsino degli scommettitori, porta a far salire la quotazione dei notai e degli avvocati.
 
Preoccupa non tanto la previsione che la redazione della dichiarazione anticipata avvenga per iscritto con data e firma olografa della persona ma il mancato coinvolgimento, in questa fase, del medico di fiducia scelto dalla persona.
 
Non già per circoscrivere questa volontà con una qualche forma di controllo esterno quando per dare ad essa contenuti chiari ed univoci  affinchè non ci siano poi dubbi interpretativi quando si dovrà dare ad essa piena e concreta esigibiità.
 
Anche perché la sussidiarietà non solo tecnica ma soprattutto umana in questo particolare momento della vita di ogni persona dovrebbe risolvere i dubbi, detendere le ansie ed affrontare le paure che spesso condizionano il rifiuto della cura.
 
A patto di voler davvero gettare le basi di quell’alleanza che dovrà essere onorata da chi sarà poi chiamato al rispetto di una volontà previa, senza che si pongano dubbi interpretativi sui suoi contenuti tecnici.
 
È così da condividere l’idea che nella volontà anticipata la persona debba sempre indicare il fiduciario, senza particolari formalità, scegliendolo preferibilmente nella rete parentale o amicale.
 
Fiduciario i cui compiti andrebbero però meglio declinati dalla norma sulla falsa riga di quanto già ha fatto il Code francese anche per non creare confusioni con le altre figure di rappresentanza giuridica che pur potrebbero nascere come sembra ammettere lo stesso d.d,l, che rimette al Giudice tutelare i pur sempre possibili contrasti tra l’amministratore di sostegno ed il fiduciario. 
 
Non mi convince, invece,  l’idea che, se non nominato, sia il Giudice tutelare a doverlo indicare con la possibilità di investire dei relativi compiti anche l’amministratore di sostegno per non aggravare il carico di lavoro della giurisdizione e trasferire le nostre scelte personali nei lidi di quest’ultima.
 
Per evitare tutto ciò sarebbe bastato poco: prevedere che in questa particolare forma di deposito della volontà della persona, la persona debba sempre nominare il suo fiduciario riconoscendo a questa figura un ruolo non certo vicario o di controllo dell’operato medico ma di sola garanzia dei diritti di libertà della persona dovendo essa esprimere la sua voce quando la stessa l’avrà definitivamente perduta.
 
Sottolineando la centralità del ruolo di garanzia affidato al fiduciario, occorre però sottolineare che affidarsi alla capacità di intendere e di volere della persona per la redazione della sua volontà anticipata è un gravissimo errore che sarà fonte di stigmi e di disequità.
 
Perché se è pur vero che, di regola, è la persona sana che dichiara la sua volontà in forma anticipata rispetto ad opzioni di cura ipotetiche ma pur sempre possibili è pacifico che questa idea concettuale pone notevolissime criticità quando la persona, malata, è chiamata a pianificare quelle cure non già ipotetiche ma ragionevoli per la stessa evoluzione naturale della malattia.
 
Essendo scontato che la capacità di intendere e di volere e la moral agency sono categorie tra loro molto diverse nonostante i punti di contatto e che molte persone, ancorché riconosciute giuridicamente incapaci o non più in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi, sono ancora in grado di integrare le diverse esperienze nella loro identità biografica, tenuto conto dei loro valori di riferimento, delle loro sensibilità e della loro stessa idea di dignità.
 
Che non può essere selezionata a nostro piacimento o sulla base di una discutibile categoria giuridica perché ciò equivarrebbe a spogliare la persona dalla sua dignità alla cui tutela e rispetto ci chiama la nostra lunghissima tradizione
 
Le (poche) luci e i (molti) coni d’ombra del d.d.l.
Al di là della “buona qualità complessiva”[3] dell’articolato sul piano della tecnica legislativa ciò che però colpisce, anche ad una prima lettura, è l’ambiguità di alcune scelte terminologiche in esso contenute.
 
La prima conferma l’idea che la libertà della persona (art. 13 Cost.) ed il diritto alla salute (art. 32 Cost.) traslano definitivamente nel consenso informato e nel suo opposto (il dissenso informato): locuzione di straordinaria ambiguità nonostante la sua ampia diffusione nel mondo professionale (ed in quello giuridico che lo considera una “regola della vita”[4]) la quale è però  un’invenzione lessicale priva di qualsivoglia tradizione rappresentando il precipitato nella nostra lingua della traslitterazione della parola inglese informed consent.
 
La seconda riguarda la conferma che la volontà previa della persona viene indicata come dichiarazione e non già come direttiva anticipata di trattamento con “una differenza che non è di poco conto, dato che il termine dichiarazioni […] aveva una valenza prevalentemente informativo-comunicativa, a fronte del termine disposizione che assume valore prescrittivi”[5].
 
Abbozzando un primo e provvisorio esame critico sui contenuti del d.d.l., è evidenza pacifica che esso si occupa prioritariamente del consenso informato non introducendo però alcuna sostanziale novità ma consacrando il già esistente, ovverosia i principi riconosciuti a livello costituzionale, sovranazionale (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la bio-medicina), giurisprudenziale[6] e deontologico che – bisogna ricordarlo agli sbadati che affermano non esserci nulla e che piuttosto del nulla è meglio una brutta legge – assumono il valore di una norma giuridica concorrente a predefinire il comportamento atteso da parte dei professionisti.
 
Dunque, richiamando il celebre detto contenuto nel Libro dell’Ecclesiaste (1,10), “sotto il sole, niente di nuovo”, se non fosse per alcune poco felici  indicazioni riguardanti le modalità di acquisizione oltre che di gestione del consenso informato e l’irresponsabilità civile e penale del medico nelle ipotesi in cui egli si sia per così dire adeguato al rifiuto espresso dalla persona.
 
Riguardo al quomodo del consenso informato già si è in precedenza detto: il d.d.l. (art, 1, comma 4) prevede la sua costante acquisizione in forma scritta ovvero, quando le condizioni del paziente non lo permettono, attraverso la videoregistrazione o l’uso di altri dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare oltre al suo inserimento o in Cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico sperando che esso sia attivato in tempi celeri.
 
Con una novità di tutta evidenza rispetto all’oggi anche se è sotto gli occhi di tutti la diffusione nelle corsie di molteplici e variegati moduli di consenso informato alla cui diffusione hanno partecipato gli accreditamenti istituzionali (primo tra tutti quello della Joint Commission Internationa statunitense), le spinte non certo velate dell’ANIA che hanno condizionato molti contratti assicurativi  e la diffusa preoccupazione dei medici di precostituire una qualche causa di giustificazione per potersi difendere nei procedimenti giudiziari.
 
Ratificare queste spinte aberranti - che abbiamo combattuto in questi anni evidenziandone i cortocircuiti e le storture applicative e che hanno aperto la porta alla signoria della burocratizzazione del care - è un errore imperdonabile che, ancora una volta, finirà con l’azionare il pedale su quell’acceleratore che pretende di trasferire la relazione di cura verso i lidi pericolosi del contratto mercantile.
 
A poco valendo il richiamo operato dal d.d,l. alla comunicazione come tempo di cura (art. 1, comma 9) perché a pacifico che i medici, nei sistemi performanti della sanità pubblica italiana che li opprimono in relazione al fattore tempo, cercheranno di arrivare alla firma sul modulo (di consenso o di dissenso) per esercitare il diritto alla loro irresponsabilità penale e civile laddove dovessero emergere le complicanze del trattamento o le conseguenze del rifiuto.
 
Con l’ulteriore deriva che sarà proprio questa irresponsabilità sul piano della colpa a selezionare anche i contenuti del consenso (o del dissenso) informato in cui sarà data sicura enfasi ai rischi ed agli eventi avversi, anche a quelli statisticamente minimali e poco possibili, ad essere realisti, anche a porre il medico nella piena legittimità di astenersi, nel caso di rifiuto opposto dalla persona, da qualsiasi azioni di umano convincimento visto il suo esonero dalla perseguibilità giuridica che, tuttavia, non lo esonera dalla sua personale responsabilità umana. La quale non è certo un orpello retorico ma il cuore pulsante di ogni relazione di cura se almeno si vuole continuare a dare ad essa una dimensione prioritariamente umana.
 
Poche novità, dunque, nei primi articoli del d.d.l. in discussione, con una consacrazione del già esistente che, tuttavia, poteva essere declinato in maniera più incisiva e senza estraniarsi dai problemi dell’oggi[7] laddove si fosse davvero voluto provare a correggere i molti difetti dell’attuale prendersi cura in un contesto sanitario sempre più definanziato, complesso e super-specialistico[8]  che dovrebbe meglio saper rispondere alle nuove sfide poste dalle molte forme di cronicità[9].
 
A queste sostanziali conferme si aggiunge qualche novità contenuta negli art. 3 e 4 che, come ricordato, disciplinano le direttive (rectius, dichiarazioni) anticipate di trattamento e la pianificazione anticipata della cura.
 
Riguardo alle prime si è già detto della loro burocratizzazione sia nella redazione che nel loro deposito nelle apposite banche dati regionali che conferma quanto già si è detto a proposito del consenso e del rifiuto informato.
 
Se è comprensibile che la preoccupazione era quella di garantire la loro autenticità, ciò che non è chiaro sono le ragioni in forza delle quali la nostra personale libertà debba essere etero-controllata  sia nella fase redattiva che in quella del suo deposito anche perché la firma sul modulo può ben rappresentare una garanzia sufficiente essendo peraltro prevista per altre, altrettanto importanti, dichiarazioni di volontà (ad es., per quella testamentaria).
 
La scrittura olografa è così, a mio modo di vedere, una garanzia di per sé stessa sufficiente a dimostrare l’autenticità della volontà dettata in anticipo dalla persona ritenendo che il controllo esterno a queste decisioni personalissime sia una forma gratuita di violenza che mina la nostra stessa dignità. 
 
Quanto poi all’idea che il medico, nel caso di sopravvenuta incapacità della persona di autodeterminarsi, le possa disattendere in tutto o in parte (art. 3, comma 5) nel caso di sussistenza “di terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”, occorre chiedersi se questa criticità che pur dobbiamo ammettere in linea teorica non possa essere aggirata: prevedendo, ad es., che le dichiarazioni anticipate di trattamento debbano essere periodicamente aggiornate e redatte con il sostegno di un medico che, meglio di altri, potrà illustrare alla persona le opzioni terapeutiche al momento disponibili e rendere esigibili le sue scelte di vita.
 
Non essendo poi nemmeno condivisibile l’idea che, nel caso di disaccordo tra il medico ed il fiduciario, la questione debba essere rimessa al Giudice tutelare.
 
C’è da chiedersi se i tempi della giurisdizione siano o meno compatibili con le esigenze della cura, se i Giudici non debbano occuparsi di affari più seri e sulla base di quali elementi tecnico-giuridici i rappresentanti dell’ordinamento dovranno in queste situazioni decidere anche ad evitare i pur sempre possibili ricorsi ai gradi superiori (ne è un esempio, nella vicina Francia, la vicenda umana di Vincent Lamert); c’è da chiedersi, in altre parole, se l’esigenza di affidare alla giurisdizione un controllo di merito sia un ulteriore elemento che rinforza l’esigenza dell’etero-controllo normativo sulle nostre volontà nel fine della vita o se essa non sia la spia dell’esigenza di dare una qualche solidità ad una questione eticamente sensibile. 
 
C’è da chiedersi, ancora, se questa previsione non confermi la poca fiducia pubblica affidata al medico o se essa non risponda all’esigenza di lasciare al medico stesso una via di fuga per eludere la volontà anticipata della persona: se fosse così, più opportuno sarebbe lasciare aperta ai professionisti la porta della clausola di coscienza pur evidenziando che questa opzione non deve essere confusa né con l’obiezione di coscienza né con la disobbedienza civile, anche perché resto convinto dell’esigenza che le nostre personali coscienze debbano sempre (responsabilmente) fare un passo indietro quando esse possono mettere in tensione  libertà e diritti legittimi di terzi.
 
Anche riguardo alla pianificazione anticipata della cura valgono le stesse considerazioni. Stride, ancora una volta, il richiamo alla capacità di intendere e di volere della persona che espelle da questo diritto di libertà i tanti pazienti psicogeriatrici ritenuti giudizialmente incapaci di provvedere ai propri interessi per un vizio di mente (così gli interdetti e gli inabilitati) o per una menomazione fisica o psichica anche di carattere temporaneo (così le persone poste in amministrazione di sostegno).
 
Per questa particolare forma di volontà anticipata, valida per tutte quelle persone affette da una disabilità o da una patologia cronica a carattere evolutivo, il d.d.l. prevede la sua redazione per iscritto ovvero, quando la situazione non lo permette, attraverso apparecchi di videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare (art. 4, comma 4) ed il loro inserimento o in Cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico.
 
Con un disallineamento incomprensibile rispetto a quanto previsto per le dichiarazioni anticipate di trattamento che, come già evidenziato, sono sottoposte ad un complesso sistema di controllo esterno.
 
Nella pianificazione anticipata della cura non sembra così porsi nessun problema riguardo all’autenticità del documento con una situazione che risulta paradossale se si pensa che essa riguarda trattamenti medici molto probabili mentre la dichiarazione anticipata attiene ad una situazione teorica, ancorché pur sempre possibile: nell’un caso si ammette il ruolo di credibilità sociale del medico, nell’altro lo si mette in dubbio sostituendolo con un sistema pubblico di garanzia e controllo esterno.
 
Quanto poi al rispetto della volontà della persona espressa nella pianificazione anticipata della cura il d.d.l. fa salvo quanto previsto per la dichiarazione anticipata di trattamento: che il medico la possa disattendere in accordo con il fiduciario quando esistono cure mediche non prevedibili all’atto della redazione dimenticando però che la pianificazione anticipata della cura è un processo che deve essere costantemente ragionato e riverificato non foss’altro perché, in queste situazioni, le persone titolari del diritto non sono persone sane ma pazienti ammalati.
 
Nulla dice, invece, la proposta di legge riguardo al momento in cui è ragionevole affrontare la pianificazione anticipata della cura che non può essere né troppo precoce né, naturalmente, troppo tardivo ferme restando, naturalmente, le scelte personali di chi vuole affrontare la questione fin da subito, già al momento della comunicazione della diagnosi.
 
Con un silenzio davvero incomprensibile nelle sue reali intenzioni che può davvero implementare il contenzioso medico[10] nell’ipotesi in cui il processo di partenza della pianificazione della cura sia iniziato o troppo precocemente o tardivamente impedendo così alla persona di maturare la sua scelta in piena consapevolezza e libertà.
 
Conclusioni
Abbozzando una prima e rigorosamente provvisoria valutazione critica al d.d,l, in discussione occorre osservare che poche sono le sue tremule luci, molto cupe le zone d’ombra e tanti gli inspiegabili silenzi su questioni centrali del care.
 
Le poche luci non sono, tuttavia, da guardare come se esse fossero una novità: si tratta, infatti, di riconferme del diritto vivente che hanno basi normative di rango primario se si considera che il pieno sviluppo della personalità, la libertà ed il diritto alla cura sono tra i paradigmi fondanti la nostra democrazia costituzionale e che questi diritti sono stati rinforzati da più recenti fonti giuridiche di provenienza sovranazionale (europee e comunitarie) oltre che da tutti i Codici di deontologia professionale e da una costante elaborazione giurisprudenziale.
 
Non si tratta, così, di novità sostanziali ma di sole conferme le quali non richiedevano certo l’avvallo del legislatore dell’urgenza perché la cura è un diritto costituzionalmente garantito (non un dovere) con la conseguenza che la persona medesima può legittimamente rifiutarla a parte le oramai sporadiche eccezioni di legge che mai, comunque, possono violare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana. 
 
Un diritto inalienabile (inviolabile o fondamentale che dir si voglia)  la cui portata è ampia e valida anche per il futuro nell’ipotesi in cui la persona che ne è titolare non sarà più in grado di esprimere o di far sentire la sua voce; perché l’attualità del consenso (o del rifiuto) non può essere una legge universale del tutto o nulla, da usare come grimaldello per banalizzare le molte criticità del care senza volerle però nemmeno umanamente affrontare.
 
Se è dunque realistico pensare che il d.d.l. in questione non colma nessun vuoto legislativo limitandosi a dar conferma di alcuni principi generali dell’ordinamento democratico che di certo non lo richiedevano, molti sono i vuoti e le sue zone d’ombra che occorre ricordare a coloro i quali affermano, facendosi forza di un proverbio cinese, essere preferibile accendere una candela che maledire l’oscurità.
 
Per singoli e distinti punti, a futura memoria: (a) la burocratizzazione del consenso (e del dissenso) informato sia nelle loro modalità di acquisizione che nell’estensione applicativa; (b)  l’individuazione, tra le cause di invalidità del consenso, oltre alla maggiore età, della capacità di intendere e di volere che non esaurisce certo la  moral agency della persona; (c) gli strumenti di etero-controllo pubblico sulle dichiarazioni anticipate di trattamento; (d) la loro parziale vincolatività per il medico ed il rinvio alla giurisdizione ordinaria degli eventuali dissidi che si dovessero verificare tra il professionista ed il fiduciario o tra questo e l’amministratore di sostegno; (e) l’incomprensibile disallineamento delle modalità di formalizzazione della volontà anticipata della persona e della pianificazione della cura; (f) la mancata individuazione dei criteri (rigorosamente restrittivi) che legittimano la decisione posticipata di un terzo nel caso in cui si pongano dubbi interpretativi sulla volontà anticipata espressa dalla persona.
 
Il risultato finale non è soddisfacente e conferma le ampie divisioni esistenti nel nostro Paese e l’incapacità perdurante della politica di legiferare nella falcidia di una maggioranza che si regge sui difficili equilibri delle larghe intese, sulla crisi economica e sui fenomeni migratori.
 
Purtroppo, chi afferma che i contenuti del d.d.l. sono “scientificamente corretti” introduce nella disordinata discussione oggi in corso un’ulteriore sicumera di presuntuosa superiorità per eludere, ancora una volta, le questioni che continuano ad esistere nella vita di chi soffre visti i continui solleciti che si sono rivolti a riumanizzare la cura.  
 
Affermare che il d.d.l. trasla, nell’ordinato vivere collettivo in cui coesistono i mille modi del sentire, contenuti scientificamente corretti che renderanno finalmente possibile la relazione di cura nel fine vita è un’affermazione surreale che, accanto a quella di chi afferma essere meglio una brutta legge che il nulla[11], denuncia la falsità e l’ipocrisia del confuso dibattito. 
 
Composto da molte voci, più o meno organizzate, spesso confuse, poco equilibrate ed a cui occorre umilmente ricordare che, prima di parlare e di sottoscrivere appelli e petizioni, occorre mettersi per un momento al posto dell’ammalato senza giudicare e ponendosi in aperta discussione, con quel sussulto di umanità che dobbiamo donare con gratuità a chi pretende rispetto, solidarietà ed un’umana carità misericordiosa.
 
Nella consapevolezza che i diritti infelici di cui si discute sono pur sempre diritti e che la maturità della democrazia si misura proprio nel dare ad essi piena e concreta esigibilità.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
 
[1]  Traggo questa convincente espressione da DONINI M., La necessità dei diritti infelici. Il Diritto di morire come limite all’intervento penale, in Diritto penale contemporaneo, 2017.

[2]
E che dividono anche i credenti vista la spaccatura recente che si è creata tra chi afferma che il d.d.l. in discussione “non è in alcun modo finalizzato all’eutanasia” (così D’AGOSTINO F., presidente dell’Unione giuristi cattolici) ed i 250 sottoscrittori dell’appello pubblico promosso dal Centro studi Livatino per i quali la proposta di legge “stravolge il senso ed il profilo della professione del medico” che dovrà “assecondare la volontà suicidaria della persona … con un prevedibile incremento del contenzioso” (si veda, al riguardo, Quotidianosanità del 30 marzo 2017 in cui si dà anche atto della presa di posizione del Direttore generale dell’AIFA).

[3]
Cfr., CUPELLI C., Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge?. in Diritto penale contemporaneo , 13 marzo 2017

[4]
Così RODOTA’  S., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006.

[5]
Cfr, ROSSI S., Consenso informato e autodeterminazione dei pazienti nei trattamenti sanitari, in la.costituzione.info, 16 dicembre 2016..

[6]
A partire da Corte costituzionale, sent. n. 438 del 2008.

[7]
In un noto studio europeo sono 18 i secondi che intercorrono tra l’inizio del racconto del paziente e il primo intervento del medico.

[8]
Si veda al riguardo TERZANI T., L’ultimo giro di giostra, Milano, 2004: “Purtroppo quella figura di medico che conosce bene non solo la sua materia, ma anche la vita, che ha una solida conoscenza scientifica, ma concepisce ancora la medicina come un’arte non esiste più […] Il malato si sente meno capito dal medico-funzionario che fa domande soprattutto per riempire dei formulari, o dal medico specialista che è esperto solo di un pezzo del suo corpo e che di quel pezzo si occupa come se non fosse parte di qualcuno […]”

[9]
Mi si permetta di rinviare al mio Le nuove sfide del care,. Medicina legale, deontologia ed etica per le professioni sanitarie, Aracne, Roma, 2017.

[10]
Così GARAVAGLIA M. nell’intervista pubblicata dal Foglio il 9 aprile 2017.

[11]
Ho già contestato pubblicamente quest’idea. Si veda CEMBRANI F., Biotestamento. Quando il niente è meglio di una brutta legge, in Quotidianosanità, 12 marzo 2017.


17 aprile 2017
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