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Attività libero professionale e vincolo di esclusività. Il caso di un Professore universitario che la svolgeva senza autorizzazione

di Fernanda Fraioli

Il caso di un professore universitario a tempo pieno condannato dalla Corte dei conti al risarcimento di 2 mln di euro all’Università di appartenenza per avere svolto la libera professione senza autorizzazione.

16 GEN -

La giurisprudenza contabile ha stabilito che “il professore universitario a tempo pieno che svolge attività libero professionale (nella specie, di odontoiatra), non autorizzata né autorizzabile dall’amministrazione di appartenenza, è tenuto a riversare a quest’ultima i compensi percepiti nell’esercizio di tale attività, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; la sua condotta, tuttavia, in assenza della prova del non corretto adempimento degli obblighi di docente a tempo pieno, non è di per sé sufficiente per ritenere indebita la percezione, da parte sua, degli emolumenti aggiuntivi che presuppongono il vincolo di esclusività”.

Continuando un argomento già precedentemente trattato in materia di autorizzazione ad incarichi extraistituzionali e del connesso obbligo di riversamento all’Amministrazione degli emolumenti conseguiti in caso di sua assenza, una particolare fattispecie caduta sotto la lente del giudice contabile, ci consente di riportare tale affermazione che funge da parziale esimente ad un comportamento ritenuto dal legislatore come gravemente responsabile.

Vale a dire che, a rigore, il medico in oggetto – proprio perché la normativa non consente al professore a tempo pieno l’esercizio dell’attività libero professionale, ritenuta incompatibile, a differenza dell’attività di collaborazione scientifica e di consulenza che, invece, sono consentite – sarebbe censurabile e, di conseguenza, da sanzionare con il riversamento delle somme percepite nelle casse dell’Amministrazione di appartenenza.

Ma, per una specifica contingenza, ritenuta sussistente dai giudici, è stato mandato esente da responsabilità per tre poste di danno sulle quattro individuate dagli inquirenti.

Le indagini della Guardia di Finanza avevano accertato che il soggetto interessato, negli anni dal 2009 al 2017, ha svolto presso uno studio odontoiatrico associato, attività libero professionale non autorizzata, ma nemmeno autorizzabile perché assolutamente vietata ai professori a tempo pieno.

Più precisamente, questi era stato fino al 31 marzo 2016 professore associato a tempo pieno e dal 1 aprile 2016 professore ordinario a tempo pieno di Malattie Odontostomatologiche - Clinica chirurgica integrata, presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università.

La normativa di settore – art. 11, co. 5, DPR 11 luglio 1980 n. 382, art. 60 DPR 10 gennaio 1957 n. 3, art. 53 Dlgs. 30 marzo 2001 n. 165, art. 6, co. 9 e segg., L. 30 dicembre 2010 n. 240 – come già visto in un precedente articolo, prevede l’incompatibilità del regime di professore a tempo pieno con l’esercizio dell’attività libero professionale, consentendo, invece, l’attività di collaborazione scientifica e di consulenza.

Naturalmente gli incarichi – di qualsivoglia natura – devono essere preventivamente autorizzati, con criteri e procedure stabiliti, per i professori universitari, dagli statuti e regolamenti degli atenei, pena, in caso contrario l’obbligo di riversamento dei proventi.

Nel caso di specie, alcun riversamento era stato registrato, atteso che il professore interessato ha ritenuto che l’attività svolta non costituirebbe un’ipotesi di violazione dell’art. 53, co. 7, Dlgs 165/2001 in quanto da configurare, non già quale assunzione di un incarico non autorizzato, bensì come attività incompatibile e perciò sanzionata unicamente dall’art. 63 DPR 3/1957 con la decadenza dall’impiego.

Inutile dire che in sede giudiziale, tale tesi è stata ritenuta del tutto inconsistente ed infondata, atteso che la posizione dei giudici contabili in materia è assolutamente granitica nel ritenere che “la portata dell’art.53, co.7 cit. riguarda qualsiasi attività vietata (in quanto non autorizzabile) o non autorizzata (per mancata richiesta da parte dell’interessato o per diniego della P.A.) concernente pubblici dipendenti”.

Il comportamento del medico in questione, allora, è stato ritenuto connotato da dolo – che identifica la volontà cosciente di venir meno ai propri obblighi di servizio, contrariamente alla colpa grave che è contrassegnata da un’elevatissima negligenza e sprezzo degli interessi dell’Amministrazione – in quanto l’incompatibilità dell’attività professionale non poteva essergli ignota, continuando a svolgere una vera e propria attività parallela a quella di docente, come è stato attestato dai cospicui introiti realizzati nei ben 9 anni oggetto di indagine, non riversati all’Amministrazione.

A fronte di una richiesta di condanna al risarcimento di ben quattro voci di danno da parte della Procura – indebita percezione delle differenze di trattamento economico tra il regime di tempo pieno e quello a tempo definito; indebita percezione delle voci retributive a titolo di assegno perequativo analogo alla c.d. De Maria previste per i rapporti esclusivi; indebita percezione dei compensi che il convenuto ha percepito per l’attività svolta presso l’Istituto Ortopedico in convenzione con il SSN; violazione dell’obbligo di riversamento di cui all’art. 53, co. 7, d.lgs 165/2001 dei compensi percepiti illegittimamente dallo svolgimento dell’attività professionale incompatibile e non autorizzata – i giudici hanno ritenuto di accogliere unicamente l’ultima sull’assunto che il danno per la violazione dell’esclusività non sussiste sempre e comunque, ma che debba essere provata l’inutilità della spesa sostenuta in rapporto all’interesse pubblico da soddisfare con il tempo pieno “non trattandosi di una responsabilità formale bensì di una violazione del rapporto di esclusività, con compromissione dell’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni”.

Ciò sulla base della condivisione della posizione di varie Sezioni territoriali del medesimo tenore, dalla Sicilia, alla Campania, alla Lombardia, financo alle Sezioni di Appello.

Venendo, quindi, allo specifico del caso in oggetto, i giudici hanno ritenuto che mancasse la prova dell’inadempimento del medico ai suoi obblighi di docente a tempo pieno, condannandolo unicamente al risarcimento, ai sensi dell’art. 53, co. 7, D.lgs 165/2001, del danno causato per il mancato riversamento dei compensi che gli sono derivati dall’attività professionale svolta nel periodo dal 2009 al 2017.

Ancor più addentrandoci nello specifico, per il rilievo che l’argomento ha per i professionisti interessati all’argomento che versano nelle medesime situazioni, rileviamo la tecnica di conteggio dell’importo del danno.

I giudici contabili hanno così stabilito che l’importo del danno non potesse essere commisurato al 50% del fatturato dell’associazione professionale, come richiesto dalla Procura sulla base della quantificazione operata dalla Guardia di Finanza, in quanto il danno è costituito dall’importo dei compensi percepiti, cioè dai redditi incassati dal socio e non dai ricavi dello studio associato.

Un conteggio effettuato sui ricavi non terrebbe conto, ad onor del vero, del fatto che i costi sostenuti per l’esercizio dello studio non vanno a costituire i compensi.

Quindi per determinare correttamente il danno, il riferimento è stato ai compensi imponibili dichiarati nel mod. Unico del soggetto al rigo RH15 “Redditi (o perdite) di partecipazione in associazioni tra artisti e professionisti”.

Sulla base di una granitica giurisprudenza del supremo organo della magistratura contabile che sono le Sezioni Riunite, il danno è stato calcolato al lordo delle imposte e dei contributi previdenziali e comprensivo di rivalutazione monetaria.

Atteso il riconoscimento del dolo quale elemento contrassegnante la condotta del soggetto, il Collegio giudicante non ha ritenuto di fare ricorso all’esercizio del c.d. potere riduttivo intestato dal legislatore al giudice contabile al momento dell’individuazione dell’ammontare del danno il quale, per l’appunto, nell’esercizio di questo potere può subire delle diminuzioni a volte anche consistenti in presenza, però, di condizioni legittimanti tra le quali, per costante e granitica giurisprudenza, non è annoverato il dolo.

Conclusivamente, la condanna è stata al risarcimento in favore dell’Università degli Studi di una somma piuttosto consistente – trattandosi di € 2.301.528,00, rivalutazione monetaria compresa – che solo per avvenuta, o meglio per il mancato riconoscimento dell’assenza di prova delle altre tre poste di danno, non è stata ben più consistente.

Fernanda Fraioli

Consigliere della Corte dei conti



16 gennaio 2023
© Riproduzione riservata

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