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L’inverno demografico, una sfida colossale. Ripensare la presa in carico

di Nicola Draoli

La politica stessa dovrà necessariamente smettere di promettere solo risposte prestazionali e cominciare a professare modelli di solidarietà comunitaria e di prese in carico precoci ed innovative. È una sfida colossale solo perché non abbiamo voluto parlarne concretamente per anni. Ma è forse una delle più importanti sfide che dobbiamo porci per rispondere a quell'inverno demografico che solo 20 anni fa sembrava così lontano e ora è dietro l'angolo.

11 APR -

Parlare della riforma territoriale, sia quella novellata dal DM 77 che più in generale dalla missione 5 e 6 del PNRR, richiede uno sguardo proiettato al futuro per comprenderne l'urgenza attuativa. Un'attuazione che richiede però di ragionare oltre la mera presenza di professionisti e di prestazioni erogabili e indagare forme diverse di prese in carico.

Lo scenario utile per orientare il ragionamento è rappresentato dall'inverno demografico.

Di inverno demografico si parla da molti anni e leggendo quanto già si discuteva dieci, quindici, venti anni fa appare davvero ingiustificabile il ritardo con cui ci accingiamo a ragionare finalmente in senso pragmatico di politiche sociali e di welfare e di assistenza territoriale. Quello che era un grido di allerta inascoltato perché percepito ancora lontano oggi è un presente incombente e certo. L'ultima analisi ISTAT è impietosa: negli ultimi 3 anni abbiamo avuto un record minimo di nascite (393.000) a fronte di 713.000 decessi. Nemmeno la risorsa data dai flussi migratori è più in grado di compensare questa tendenza.

Senza girarci troppo intorno: non avremo a breve più giovani in forza lavoro nel nostro Paese in numero adeguato per garantire servizi a chi ne ha bisogno. I grandi anziani (>95 anni) in compenso supereranno i 600.000 tra 20/25 anni e nel 2055 saranno la cifra esorbitante di un milione e mezzo. Sempre intorno al 2050 l'ISTAT prevede che la fascia di età 15-64 anni passerà dagli attuali 37 milioni di individui a meno di 29.


Lo scenario si innesca in un elevato debito pubblico e quindi una totale insostenibilità del welfare così come lo concepiamo oggi, pur in tutti i suoi limiti (che un domani ci sembreranno l'età dell'oro).

I nostri figli non avranno nonni o zii. Dovranno trovare nella loro amicizia e nella loro rete quello che oggi noi troviamo in famiglia spesso in una logica sostitutiva delle politiche sociali.

Chi assisterà una popolazione di grandi anziani con numerose comorbidità, cronicità e al contempo privi di una rete sociale? Chi potrà generare salute a queste persone, una salute che va oltre la risposta sanitaria e comprende socialità ed integrazione? Eppure ancora oggi si riscontrano ostacoli e dibattiti ideologici sul concetto di famiglia tradizionale che tra pochi anni semplicemente non esisterà più. Si dovranno costituire reti sociali non familiari ma che dovranno avere in sé i diritti ed i doveri oggi previsti per legge alle famiglie tradizionali (penso al tema delle DAT e dei consensi informati, della legge 104, dei congedi parentali, degli amministratori di sostegno, del riconoscimento dei caregiver).

Non avremo professionisti sanitari e sociali in forze, non avremo disponibilità economiche adeguate.

Se partiamo da questo assunto, che non riguarda acuzie diagnosi e prescrizioni ma cronicità e presa in carico soprattutto per prevenzione primaria secondarie e terziaria, il dibattito sul numero di professionisti in grado di adempiere al fabbisogno stilato dal DM 77 è un tema sì reale e cogente ma, come dicevo, del tutto parziale. Continuare a chiederci se le case della comunità possono o no funzionare solo basandosi sulla presenza effettiva del tale professionista, h12 o h24, è una domanda fuorviante. A mio avviso il tema su cui lavorare sono i percorsi ed i servizi, la capacità che avremo di connettere reti, di connettere nodi erogatori, e soprattutto di costruire modelli di community building.

I cittadini cercano risposte nella presenza di un professionista ma dobbiamo cominciare a far passare la cultura di una risposta che attiva un percorso, un servizio, governato da professionisti ma non necessariamente (come accade invece oggi) di una prestazione erogata direttamente da un professionista.

Ecco, ragionare su modelli organizzativi basati su community building, sharing economy, welfare autogenerativo è complicato. È una forma di management che non ci appartiene, che non è nella nostra cultura, di cui si parla davvero troppo poco. Una prima risposta in tal senso rilevo venga offerta dal DDL recante deleghe al Governo in materia di politiche in favore delle persone anziane che trovo un documento di grande interesse.

Continuo a rileggere il prezioso volume del Sant'Anna di Pisa su questo tema e ritengo che dentro vi sia la visione su cui tutti noi dobbiamo orientarci.

È indispensabile che noi professionisti della salute tutti cominciamo a chiederci non più solo “quale prestazione posso erogare” ma “come posso fare per educare una comunità, un nucleo di persone che condividono spazi e obiettivi comuni, a rendersi autosufficienti per i loro bisogni di salute, a creare gruppi di auto aiuto, a far sì che abbiano le conoscenze per assistersi a vicenda? Come posso io creare e sostenere la nascita di comunità sociali solidali?”.

Si dice che un buon manager funzioni quando si rende invisibile. Un buon professionista della salute territoriale dovrà essere allo stesso modo una figura che avrà tra le sue competenze la capacità costruire reti, collegamenti, gruppi coesi in grado di autosostenersi. Già oggi come trasferiamo moltissime abilità ai caregiver dei nostri assistiti cronici domiciliati. Un buon infermiere di famiglia e comunità non eroga solo prestazioni ma insegna ai caregiver e alla persona stessa come erogare quelle prestazioni comprendendo insieme ad altri professionisti quali risorse quella persona ed i suoi affetti significativi ha. Insegna l'autonomia. Si rende invisibile nel quotidiano senza rinunciare però alla sua presenza a fianco della famiglia. Tende a diminuire le prestazioni erogabili e aumentare l'educazione all'autosufficienza comprese le prestazioni sanitarie. Dovrà però allo stesso tempo garantire una contattabilità anche remota e individuare un sistema che potrà comunque sempre rispondere a dubbi e incertezze.

L'introduzione di Longo e Barsanti nel loro libro di fatto racchiude quanto ho forse scritto in modo prolisso: “Community building, ovvero costruire comunità, è la finalità ultima delle istituzioni pubbliche, che attivano servizi, regole, meccanismi redistributivi per rispondere a bisogni individuali e collettivi, con l’intento di riuscire a costruire la società. La si vuole ricca di capitale sociale, di processi generativi ed inclusivi, di relazioni, capace di promuovere la cultura e la crescita degli individui e della collettività, efficace nell’assistere i più deboli e promuovere coloro che hanno potenziali non compiutamente espressi, in un’ottica di equità e quindi di rafforzamento del convivere insieme. “.

Questo cambio di mentalità nella progettazione dei servizi richiede nuove competenze, richiede di abbandonare i recinti rigidi delle competenze professionali e di snellire la burocrazia che questi recinti genera (penso al tema prescrittivo di ausili e presidi ad esempio), richiede di trasferire molte responsabilità alle comunità mantenendo la responsabilità organizzativa e di supervisione, richiede di lavorare sul concetto di solidarietà e bene comune.

La politica stessa dovrà necessariamente smettere di promettere solo risposte prestazionali e cominciare a professare modelli di solidarietà comunitaria e di prese in carico precoci ed innovative. È una sfida colossale solo perché non abbiamo voluto parlarne concretamente per anni. Ma è forse una delle più importanti sfide che dobbiamo porci per rispondere a quell'inverno demografico che solo 20 anni fa sembrava così lontano e ora è dietro l'angolo.

Nicola Draoli
Consigliere Comitato Centrale Fnopi



11 aprile 2023
© Riproduzione riservata

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