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Cassazione conferma condanna per omicidio colposo a un dietologo che usava farmaci a base di fendimezatrina 


Lo ha deciso la Cassazione, quarta sezione penale, con la sentenza 8086 del 25 febbraio 2019. respingendo il ricorso di un medico contro le sentenze del Tribunale prima e della Corte di Appello poi. LA SENTENZA.

27 FEB - Dietologo condannato a due anni per omicidio colposo per aver causato causa la morte del paziente con la somministrazione di un farmaco rischioso a base di fendimezatrina.

Lo ha deciso la Cassazione, quarta sezione penale, con la sentenza 8086 del 25 febbraio 2019. respingendo il ricorso di un medico contro le sentenze del Tribunale prima e della Corte di Appello poi.

Il fatto
L’imputazione è del reato di cui all'art. 589 cod. pen. perché, in qualità di medico endocrinologo e diabetologo che assisteva una paziente nel corso della dieta dimagrante a cui era sottoposta, per colpa generica e per colpa specifica, consistita nella violazione di disposizioni normative, ne cagionava la morte.

Diverse le accuse rivolte al medico. In particolare:
- per aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimetrazina nonostante il divieto di prescrizione e somministrazione disposto da diversi decreti ministeriali;
 
- per aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimetrazina pur conoscendo i rischi che l'uso di tale farmaco poteva determinare (tra cui l'aumento della pressione arteriosa, sia diastolica che sistolica, oltre che effetti anoresizzanti, dopanti e tossici), tali da indurre lo stesso ministero della Salute, con Decreto ministeriale del 02/08/2011 (pubblicato in G.U. il 04/08/2011) a disporne l'inserimento nella tabella I del d.P.R. n. 309/1990 e, pertanto, a vietarne la vendita in qualsiasi forma (industriale e galenica);

- per aver prescritto i farmaci fendimetrazina, fluoxetina e clorazepato assieme ad altri farmaci ad effetto lassativo e diuretico (tra cui idroclorotiazide, pilosella, tarassaco, senna, cascara, diuresix) a una paziente il cui stato psico-fisico era debilitato per aver perso, nel corso degli ultimi sei mesi, circa 40 kg di peso, omettendo di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari per valutare l'opportunità di prescrivere i farmaci in associazione e di valutare i rischi di insorgenza di eventuali complicanze.

Farmaci che, risultando assunti nelle ore immediatamente precedenti il decesso, determinavano un'azione aritmogena sul miocardio e uno squilibrio idroelettrico che ne provocavano la morte.
 
La sentenza
Sul nesso causale la Corte d’Appello – spiega la sentenza della Cassazione -  ha sostanzialmente confermato i fondamenti del percorso seguito dal Tribunale, anche attraverso ampi richiami della sentenza di primo grado sulla base del consolidato principio giurisprudenziale dell'integrazione reciproca tra la sentenza di primo grado e quella di appello che si pronunci in conformità.

Ha premesso che, in sede di accertamento della causa della morte della paziente, è del tutto irrilevante la circostanza, portata avanti dalla difesa, circa l'assenza nella letteratura scientifica di una casistica significativa di decessi attribuiti all'assunzione della fendimetrazina, atteso che la mancanza di tale casistica non significa ex se che la fendimetrazina non sia una sostanza potenzialmente letale ovvero che, nel caso concreto, non abbia determinato la crisi aritmica che ha condotto al decesso della donna.

“La Corte di appello – spiega la sentenza - ha reputato provato con motivazione che pertanto si sottrae al sindacato di legittimità, sulla scorta delle conclusioni peritali, che la morte della paziente sia stata provocata dall'assunzione prolungata della fendimetrazina, in associazione ad altre sostanze farmacologicamente attive che hanno innescato un processo fatale in una paziente che presentava già fattori di rischio”.
 
“Infondato è pertanto – prosegue la sentenza - l'assunto del ricorrente secondo cui la perizia, nell'affermare che ‘gli elementi raccolti nel corso della presente indagine sorreggono l'ipotesi della sussistenza del nesso di causalità materiale’ formula una valutazione ben lontana dalla certezza richiesta per l'ascrivibilità penale di un evento in termini obiettivi e concreti”.
 
Secondo la Cassazione “poiché il nesso causale può ritenersi provato ogni qual volta, sulla base di leggi di copertura, possa affermarsi che, se il soggetto si fosse astenuto da una data azione quell'evento non si sarebbe verificato (reato commissivo proprio) ovvero che se il soggetto, avendone  l'obbligo, avesse agito secondo il comando, l'evento sarebbe stato impedito, la sentenza di appello rileva come il giudice di primo grado, basandosi su regole di esperienza acquisite in giudizio e fondate su dati scientifici forniti dalla pratica medica, sia pervenuto alla condivisibile convinzione che, se il medico avesse agito con la dovuta diligenza, se cioè non avesse somministrato il trattamento terapeutico (vietato) o comunque se avesse rispettato la durata massima di tre mesi prevista dal decreto ministeriale previgente al divieto introdotto con il D.M. del 2000 (con ciò evitando che paziente per oltre cinque mesi venisse sottoposta a uno stimolo iperadrenergico costante) e, ancora, se avesse prescritto accertamenti clinici prima e durante il trattamento, l'evento morte non si sarebbe verificato”.
 
“Tale apprezzamento – aggiunge la Cassazione - si rivela persuasivo e decisivo: non solo l'ipotesi causale è riscontrata da emergenze coerenti; ma anche la tesi difensiva è smentita in modo argomentato, come più sopra illustrato”.

Sulla colpa dell’imputato “oltre alle violazioni specificamente indicate nel capo di imputazione, è poi la pericolosità del trattamento con la fendimetrazina, per di più associata agli altri  farmaci, a venire in rilievo nella motivazione della Corte”.

E in questo senso le osservazioni del ricorrente sul fatto che il divieto di somministrazione fosse da intendersi quale semplice divieto di dispensazione “desunto dal fatto che in altri casi il legislatore è intervenuto con maggior determinazione; che non era stata attivata la procedura relativa a sostanze per le quali sia insorto allarme; che in altri paesi l'utilizzo del farmaco non subisce limitazioni, appaiono fuorvianti ed esulanti dal tema per cui il medico è chiamato a rispondere”.
 
In relazione poi alla scelta del medico di somministrare un farmaco potenzialmente pericoloso, esattamente la sentenza impugnata richiama il principio della Cassazione stessa per il quale “egli non va esente da colpa se ometta un'attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi e ometta il costante controllo, nel corso della cura, delle condizioni del paziente. E che questo monitoraggio non vi sia stato risulta si evince dalle stesse osservazioni del ricorrente laddove afferma che la paziente proseguì il trattamento con la fendimetrazina indipendentemente dalla sua prescrizione”.
 
“Come si vede, dunque – conclude la sentenza -  la motivazione al presente vaglio è costituita da un apparato esplicativo puntuale, coerente, privo di discrasie concettuali, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità”.
 
“Né la Corte di Cassazione – prosegue - può esprimere alcun giudizio sull'attendibilità delle acquisizioni probatorie
, giacché questa prerogativa è attribuita al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze agli atti, si sottraggono al sindacato di legittimità”.
 
In conclusione, secondo la Cassazione il ricorso deve essere rigettato anche con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel giudizio di legittimità.

27 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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