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La burocrazia nella medicina di famiglia

di Ornella Mancin

11 DIC - Gentile direttore,
la scarsa partecipazione dei giovani medici al test di ingresso per l’accesso al corso di formazione per la medicina generale ha reso palese la poca attrattiva di questa professione, nonostante l’immagine distorta proposta dai media che alimentano l’idea di un lavoro che occupa poche ore la settimana e che fa guadagnare un sacco di soldi. Evidentemente i giovani colleghi non si fanno abbindolare da questi fuorvianti messaggi assai poco realistici.

Giorni fa su questo stesso giornale una giovane collega, dopo due anni di questa professione, aveva gettato la spugna affermando che non voleva fare un lavoro “meramente burocratico, dove la clinica imparata al corso di laurea i medicina rimane un vecchio ricordo” (QS 9 novembre).

La burocrazia ha ucciso uno dei lavori più belli del mondo, lo ha reso sterile, lo ha privato del suo scopo.

Ma davvero non è possibile sburocratizzare questa attività o almeno alleggerirla di tutto quel carico di formalismo e cavillosità che rallenta il nostro lavoro?

Basterebbero poche azioni per sgravarla considerevolmente:
- Eliminare i piani terapeutici

- introdurre l’autocertificazione per i primi giorni di malattia

- rendere possibile la ricettazione dei farmaci per le patologie croniche per almeno 6 mesi

- rendere effettiva la presa in carico da parte degli specialisti

Il piano terapeutico (PT) è nato come strumento per l’utilizzo di farmaci innovativi e spesso costosi il cui uso era destinato allo specialista. Il piano terapeutico autorizzava il mmg a prescrivere il farmaco onde evitare che il paziente dovesse tornare dallo specialista per il solo rilascio della ricetta. Nel momento in cui alcuni di questi farmaci (attualmente i NAO e i nuovi antidiabetici) sono utilizzabili già in prima battuta dal medico di famiglia, a cosa servono i piani terapeutici? La nota AIFA non è più che sufficiente per porre i giusti paletti al loro utilizzo? Togliere i PT di questi farmaci ridurrebbe e non di poco il carico burocratico del medico di famiglia.

Per quanto riguarda i certificati di malattia il medico ha l’obbligo di certificare la malattia in presenza del paziente, perché si presuppone che la certificazione sia la fine di un processo che dalla visita, porta a una diagnosi e quindi a una prognosi. Ma quando si tratta di certificati per uno o due giorni di assenza dal lavoro per sintomi non obiettivabili quali cefalea o lombalgia, o quando, come in questo periodo, vi è una marea di flogosi respiratorie febbrili o non che in genere si risolvono in pochi giorni, quale vantaggio si ha a far girare i pazienti negli ambulatori spargendo virus dappertutto? Né è pensabile che il mmg possa recarsi a domicilio di ognuno per il certificato. L’autocertificazione per i primi giorni di malattia sarebbe la soluzione più opportuna per il paziente e per il medico che si vedrebbe sgravato da una quota parte di lavoro che spesso è meramente burocratico e che sembra avere come unico significato fare da “controllori” nei confronti dei lavoratori. Per questo del resto ci sono già i medici fiscali che potrebbero incrementare la loro attività in caso di autocertificazione.

Perché poi non permettere la ricettazione di farmaci cronici per periodi più lunghi? Attualmente noi possiamo prescrivere ,almeno in Veneto, il necessario per due mesi di trattamento. Due mesi sono decisamente pochissimo e il carico di ricette che ogni giorno dobbiamo emettere si traduce in un sacco di tempo speso in pura burocrazia. Aumentare la possibilità di prescrivere per il cronico per periodi più lunghi (6 mesi) ci aiuterebbe a recuperare un po' di tempo per la clinica.

Resta in fine il problema più scottante: l’effettiva presa in carico da parte dello specialista sancito per legge ma quasi sempre disatteso , motivo per cui ci troviamo spesso a riscrivere ricette di farmaci, impegnative di visite e addirittura certificare malattie che gli ospedali non hanno fatto neanche alla dimissione.

Bisognerebbe rifiutarsi certo ma come si fa a rimandare indietro il paziente specie se abita distante dall’ospedale che lo ha dimesso, dal PS dove si è rivolto o dallo specialista che lo ha visitato? Non è una battaglia che può fare il singolo medico di famiglia , è una cultura quella della presa carico che va fatta crescere, stimolata, incrementata e magari anche sanzionata se non applicata. Ma non può restare lettera morta.

Basterebbero queste piccole cose a cui forse se ne potrebbero aggiungere altre, per riddare fiato alla nostra attività e tornare a fare veramente i medici.

Non sono cose irrealizzabili, alcune sono già state chieste dai sindacati di categoria; ci vuole la volontà politica di attuarle.

Solo sgravandolo dal suo carico burocratico il lavoro del medico di famiglia potrà tornare appetibile per i giovani medici.

Ornella Mancin
Medico di famiglia

11 dicembre 2023
© Riproduzione riservata

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