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Il filosofo, il cancro alla mammella e la…mancanza di tempo

di Giuseppina Sarobba

01 LUG - Gentile Direttore
anche io ero a Cagliari il 18 giugno al corso multidisciplinare per la condivisione del miglior percorso per la cura integrata della neoplasia mammaria e anch’io sono rimasta sorpresa dal ”discorso sui discorsi” del prof. Cavicchi. La sorpresa era legata al fatto che, con un linguaggio diverso, quello della filosofia e della conoscenza profonda dei meccanismi sanitari, si raccontava l’essenza del mio lavoro quotidiano di oncologo medico, appassionato di neoplasia mammaria.
Non ho alcun dubbio  che la figura retorica che meglio s'addice al raccontare la mammella, la mammella malata,  non sia la metonimìa, ma la sineddoche: la mammella è parte di un tutto, la donna con la sua rappresentazione corporea, la sua identità di persona,  donna, moglie, madre, nel suo ruolo privato, personale e familiare, nel suo ruolo sociale.
 
Ogni mattina quando nel mio ambulatorio entra una paziente con tumore mammario è ben presente nella mia mente di cosa dovrò occuparmi. Nella mia professione non si può prescindere, dovrò occuparmi di aspetti tecnici, e tutto questo, mi creda, è molto stimolante. La cura del tumore mammario è in continuo, veloce, vorticoso cambiamento: miglior conoscenza della cellula tumorale, nuovi bersagli molecolari,  nuovi farmaci, nuovi modelli di cura, nuovi protocolli di ricerca, spesso internazionali, in Good Clinical Practice; se ti distrai un  attimo, non leggi, non ti aggiorni, non ti confronti, diventi rapidamente vecchio e inadeguato, incapace di offrire il miglior trattamento. Questo aspetto tecnico ogni giorno  devi tradurlo, decodificarlo, raccontarlo alla tua paziente perché lei deve conoscere la sua malattia, deve guardarla negli occhi e comprenderla,  per poterla combattere, affrontare e sopportare  cure  non facili e dolorose. 
 
Ma se vuoi curare la persona e non l’organo devi occuparti di altro, devi confrontarti con il suo mondo, ognuno diverso dall’altro, devi parlare: questo forse lo sappiamo fare anche bene se poi verifichiamo cosa l’altro ha compreso. Ma soprattutto dobbiamo ascoltare: l’ascolto è la prima abilità  relazionale e, come diceva Zenone, l’uomo è stato creato non a caso con due orecchie e una sola bocca; per ascoltare dobbiamo rimuovere gli ostacoli: la centratura su noi stessi, i pregiudizi, l’utilizzo di codici (il gergo medico) incomprensibili per l’altro. La parola è  veicolo di emozioni  anche forti sia per il paziente che per il medico; utile il silenzio, che non significa  imbarazzo ma presenza, esserci, essere con l’altro in un momento difficile. La relazione, una buona relazione, è parte integrante della cura: con una buona relazione si riesce a far attingere alla paziente risorse sconosciute che saranno utili nella sua battaglia, crei fiducia e alleanza; se ci sono buone relazioni non c’è contenzioso medico-legale; se ci sono buone relazioni c’è qualità nell’assistenza.
 
Quando faccio questi discorsi nelle nostre riunioni vengo guardata come un marziano: non c’è tempo, abbiamo dei numeri da rispettare, dobbiamo render conto all’Amministrazione su come utilizziamo il nostro tempo… numeri per l’appunto. Siamo sommersi da compiti burocratici, carte, carte e ancora carte, che ci assorbono in maniera crescente, non lasciano spazio ad altro; lavoriamo davanti al computer, senza guardare negli occhi il nostro interlocutore (e poi rimaniamo spiazzati se non sono soddisfatti della nostra Sanità!). Ci manca il tempo per l’altro, da guardare appunto negli occhi, nel profondo.
Ma io non ci sto!
Penso che la mancanza di tempo sia un bell’alibi, un meccanismo di difesa per non entrare in una relazione profonda che tocca le parti più intime di me. Per far questo però devo essere preparato, devo studiare, leggere, leggermi dentro, lavorare su di me e questo è faticoso, impegnativo. Non esiste nella nostra preparazione professionale: l’Università ha completamente abdicato questo ruolo formativo, sia nella facoltà di Medicina che nelle Scuole di Specializzazione ( insieme a molte altre cose!) e allora da dove attingere? Dalla predisposizione relazionale, se la possiedi,  dall’interesse per l’altro, dalla cultura umanistica, da una formazione che se vuoi ti devi scegliere e pagare, se l’obiettivo è essere migliore! E io voglio essere migliore, perché do un senso a ciò che faccio e ciò che faccio ha un senso, per me e per le mie pazienti.
Ma siamo tutti pronti a questo? E’ un cambiamento molto faticoso!
 
Mi piacerebbe che il mio direttore generale, o ancor meglio il mio assessore alla Sanità, stessero accanto a me un giorno di ordinario lavoro per capire la complessità di cosa facciamo, come lo facciamo, con quali strumenti, con quale qualità.
Ci si chiede il risparmio, perché i trattamenti oncologici costano!  Ma sanno questi Signori che stiamo sempre più imparando a dare la cura giusta al malato giusto? Sanno che con queste cure è possibile guarire le persone e, se non si riesce a guarirle, si consente loro di vivere più a lungo con la malattia una vita di qualità?
 
Le mie pazienti mi raccontano della malattia come opportunità, di crescita personale e di ridefinizione di significati. Mi raccontano che festeggiano due compleanni: quello anagrafico, e prima ogni compleanno era una sofferenza perché un anno di più voleva dire essere meno giovani, e la giovinezza oggi è un valore, e poi quello della malattia: questo è invece una festa, un anno di più di vita vissuta con pienezza.
Mai si misura questo guadagno dal punto di vista economico.
Si vuole risparmiare sui costi del personale? Si può: una mia specializzanda è appena rientrata da un percorso formativo all’estero in un centro di alto livello per la cura del tumore al seno, in Spagna: bene, la sua esperienza racconta che circa il 60% di quanto facciamo noi ogni giorno, il lavoro burocratico,  là viene svolto da personale tecnico qualificato: segretarie, data manager…, qualificato sì ma con costi decisamente inferiori a quelli di medici specialisti, e il medico non fa altro che il medico, di alta qualità.
 
E allora sono d’accordo col prof. Cavicchi e con Sandra Orrù: questo Sistema  Sanitario non ci piace e non è adeguato: non è a misura di malato, non è a misura di operatore;  si potrebbe rivoltare come un calzino, rivoltiamolo!
Ma abbiamo due piedi.
Rivoltiamo anche l’altro calzino: facciamo in modo che il nostro lavoro sia impeccabile, guardiamoci dentro, guardiamo le nostre criticità, risolviamole, costruiamo un nuovo modo di lavorare, cerchiamo di esserci, come professionisti e come persone, con onestà culturale, facciamo in modo di offrire ai nostri pazienti  un lavoro di qualità.
So di essere fuori dal coro che predica come ogni responsabilità delle cose che non vanno sta nell’altro: questo esiste e lo conosciamo bene, cambiamolo, ma non ignoriamo che anche noi  non siamo impeccabili.
Mi sento un po’ come un solista, ma spero di essere come quello delle frecce tricolore, che ha accanto, a un diverso piano di volo, la squadriglia intera ben allineata…. ma tutto questo deve essere costruito con esercizio e dedizione.
 
Giuseppina Sarobba
Oncologia Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari

01 luglio 2013
© Riproduzione riservata

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