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Il medico e la volontà del paziente. Serve più informazione e formazione

di Daniele Rodriguez

20 GIU - Gentile Direttore,
sono già intervenuto in merito alla condanna ​penale ​di un medico per violenza privata, ​consistita nell'aver effettuato una trasfusione di emazie ad una paziente ​nonostante il suo esplicito rifiuto; in quell'intervento, ho proposto alcuni spunti di carattere generale sull'art. 32 della Costituzione, sull'art. 54 del codice penale e sulla legge 22 dicembre 2017, n. 219.
 
Al merito della vicenda si riferiscono due distinte dichiarazioni, pubblicate in QS il 18 giugno u.s., rispettivamente di Toti Amato, presidente dell’Ordine dei Medici di Palermoe di Pierluigi Marini, presidente dell'ACOI.
 
La loro lettura mi induce ad intervenire nuovamente, questa volta anche nel merito della vicenda – che conosco abbastanza bene, avendo fatto parte del collegio dei consulenti tecnici per la parte civile – con una precisazione essenziale, cioè che la trasfusione non era finalizzata, pur in presenza di un basso valore di emoglobina, a salvare la vita della persona; una siffatta tesi non è stata sostenuta durante il processo da alcuno dei consulenti tecnici del pubblico ministero, né da alcuno dei periti del giudice, né sarebbe stata sostenibile stando ai dati riportati in cartella clinica.
 
Ciò puntualizzato, ritengo che non sia ravvisabile nel caso alcun dilemma etico: la persona rifiutava un trattamento che non era salva-vita.
 
Entrando, a questo punto, nel merito della vicenda, non possono non essere oggetto di meditazione, due passi della sentenza, riportati a pagina 25, che descrivono le modalità con le quali è stato superato il rifiuto della paziente:
I) il medico ha riferito alla paziente che la avrebbe trasfusa perché aveva avuto telefonicamente dal magistrato l'autorizzazione a trasfonderla, autorizzazione che il magistrato, in effetti telefonicamente interpellato, ha negato di aver dato;
II) l'infermiera coordinatrice, presente alla trasfusione praticata da un altro infermiere, dichiara che "la donna era molto triste e piangeva perché la situazione chiaramente era molto triste".
 
Ogni commento è superfluo.
Per quanto riguarda la condotta medica descritta in I), rinvio semplicemente al disposto dell'articolo 20, secondo comma, del codice di deontologia medica: "Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa ..."
 
Nel suo intervento, Pierluigi Marini menziona poi anche questioni da affrontare e da risolvere soprattutto sul piano giuridico. A questo proposito, segnalo che la tematica del rifiuto del trattamento sanitario può essere considerata soprattutto in base a due fonti normative:
a) l'articolo 32 della Costituzione, il cui secondo comma è formulato in modo da tutelare specificamente l'eventuale rifiuto ad un trattamento sanitario: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;
 
b) l'articolo 5 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 ​"Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento​"; in particolare, il comma 1 afferma il diritto della persona di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia, ​nonché il​ diritto di revocare in qualsiasi momento​ il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento.  Il medesimo comma considera altresì l'eventualità che il rifiuto o la revoca riguardi un trattamento salva-vita, stabilendo la procedura da attuare in questi casi: "Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.​"​
 
Inoltre il comma 6 dà una risposta a chi si chiede che cosa accadrebbe se la persona morisse a causa del mancato trattamento conseguente al rifiuto: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
 
Riprendendo i profili di carattere generale che avevo proposto nel mio precedente intervento, ritengo che sia necessario che i professionisti sanitari abbiano chiaro che ogni loro prestazione va effettuata nel rispetto della libertà e della dignità della persona.
Il sistema di tutela prospettato all'interno della relazione di cura e di fiducia fra medico e paziente dalla citata legge n. 219 è un ottimo riferimento per l'esercizio professionale.
 
Tuttavia il sistema disegnato dalla legge n. 219 rischia di avere una lentissima realizzazione. L'esperienza infatti suggerisce che scarsa attenzione sia dedicata al comma 9 dell'articolo 1 di detta legge da parte di chi deve garantirne la pratica attuazione: "Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l'informazione necessaria ai pazienti e l'adeguata formazione del personale."
 
Conclusivamente, per raccogliere dati precisi circa questa mia ultima osservazione, sarebbe molto utile promuovere un censimentodelle strutture sanitarie pubbliche o private che hanno organizzato siffatte attività informative e formative.
 
Daniele Rodriguez
Medico legale in Padova

20 giugno 2018
© Riproduzione riservata

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