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Il tema del suicidio assistito non può ridursi ad una fuorviante contrapposizione laici/cattolici

di Maurizio Mori

06 AGO - Gentile Direttore,
la ringrazio di consentire a QS di porsi come luogo qualificato per dibattiti approfonditi e argomentati su temi come quelli del suicidio medicalmente assistito che, non di rado, suscitano solo “guerre culturali”: un’occasione preziosa che va riconosciuta. Le chiedo un po’ di spazio per avanzare alcune osservazioni in merito al recente Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) che già ha sollevato discussioni su questo giornale.
 
1. La prima osservazione che intendo proporre riguarda il giudizio generale sul Parere, che da parte di alcuni non è stato né favorevole né tenero. Lo stesso articolo redazionale di QS lascia trasparire, sin dal titolo, che il Parere avrebbe suscitato tanto rumore per nulla: “Suicidio assistito. CNB si spacca: accordo solo su 6 raccomandazioni molto generali”, dove spaccatura e accordo solo su raccomandazioni molto generali (generiche) starebbero a indicare un risultato di poco conto.

Nel suo intervento su QS, poi, Pessina ha rincarato la dose: Parere “deludente, metodologicamente incomprensibile”, perché non riesce a dare indicazioni prescrittive precise come avrebbe dovuto, e si impegna soprattutto a chiarire i problemi e a esporre le diverse posizioni sul tema, sconfinando in un saggio accademico di cui “non si sentiva l’esigenza” e col risultato che “ognuno potrà trovarci la posizione che più gli aggrada”. Quest’ultima critica evoca l’idea centrale della Postilla di D’Agostino al Parere, in cui spiega il suo voto contrario allo stesso, che a suo dire avrebbe dovuto assumere “una logica drasticamente prescrittiva” e proporre “un’affermazione esistenziale” caldamente contraria al suicidio assistito e all’ideologia che lo sottende. Invece, il CNB ha preferito un Parere di “carattere espositivo”, producendo “una dossografia inevitabilmente fredda”, anche se “equilibrata e intellettualmente onesta (e già solo per questo ammirevole)”.

È comprensibile che Pessina e D’Agostino, come altri cattolici, siano sorpresi (e forse anche un po’ delusi) nel vedere che una maggioranza (15 a 11) favorevole all’etica del suicidio assistito, ma il loro stato psicologico non è ragione a sostegno del giudizio negativo sul Parere. Né optare per un Parere di “carattere espositivo” del Parere equivale a stilare una mera lista in cui “ognuno potrà trovare la posizione che più gli aggrada” (Pessina) o a fare “dossografia”, se con tale termine si intende un “elenco di opinioni e di dottrine semplicemente giustapposte, senza un criterio logico o sistematico” (Dizionario italiano affiliato OUP).

Il Parere non è affatto mera dossografia, perché traccia un quadro logicamente coordinato e ben sistemato delle diverse posizioni, spiegandone i diversi aspetti: l’essere riusciti a trovare un accordo sul quadro complessivo è un risultato notevole. È merito del collegio di Presidenza tutto, e in particolare del presidente D’Avack e della vice presidente Palazzani, aver saputo comporre le divergenze interne che spuntano tra una trentina di studiosi di varie prospettive, così da raggiungere la quasi unanimità almeno sull’analisi dei problemi e la presentazione delle posizioni.
 
Se si considera che viviamo nel tempo delle "culture wars”, delle guerre culturali, non è risultato né scontato né da poco: anche sul piano accademico si rileva disaccordo su tutto, persino su quali siano i problemi importanti da discutere. Se Centri Studi di vario orientamento (laico, cattolico, ecc.) avessero ciascuno elaborato uno studio analogo, avremmo avuto documenti in cui i termini usati, i problemi affrontati, le priorità e le connessioni interne sarebbero stati diversi, e alcuni avrebbero dato grande enfasi a alcuni temi e scarsa a altri. Che il CNB sia riuscito a precisare in modo pressoché unanime che quelli indicati sono i problemi rilevanti e a individuare il loro peso specifico è un contributo che fa compiere un passo significativo alla riflessione culturale sul tema: oggi le persone hanno una mappa affidabile per orientarsi sul tema. L’avere a disposizione una solida guida per l’orientamento su una questione così controversa è un risultato significativo per l’intera cultura italiana.

2. Già di per sé l’aspetto sopra ricordato basterebbe a rivalutare il Parere e a smentire i giudizi negativi su di esso. Ma chi avesse la pazienza di leggerlo con attenzione, non sfuggiranno osservazioni interessanti e anche qualche idea non priva di originalità. A titolo di esempio ne individuo una che, dico subito, non è mia. Essa si trova nel paragrafo 2 dedicato al rapporto tra eutanasia e suicidio assistito: si osserva che “per alcuni orientamenti distinguere l’aiuto al suicidio dall’eutanasia può risultare operazione inconsistente e speciosa, data la sostanziale equivalenza tra il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di essere autore della morte di questa persona. Il suicidio, che per definizione è un atto individuale quando il soggetto fa tutto da sé, cessa di essere tale nel caso in cui ci sia assistenza, ossia quando altri provvedono a predisporre gli ausilii richiesti a dare la morte, e all’interessato è lasciato solo l’ultimo atto” (p. 11).

Nell’ultima proposizione riportata, il Parere distingue, in nuce, due diverse forme di “suicidio”, e l’idea merita di essere articolata. Di suicidio sempre si tratta, perché il nucleo centrale della nozione resta lo stesso, in quanto è il soggetto che compie l’azione ultima con cui si dà la morte. Cambia radicalmente, però, il contesto e per questo la stessa nozione viene declinata in due modalità o forme differenti.

Chiamo “suicidio tradizionalmente inteso” la forma di suicidio in cui, come dice il Comitato, “il soggetto fa tutto da sé”, cioè agisce da completamente solo e in solitudine, tenendosi tutto dentro, senza dire niente a nessuno e anzi prestando grande attenzione a non creare sospetti circa la propria intenzione, così che il suo gesto coglie tutti alla sprovvista, crea sgomento, turbamento, sconcerto. Alla notizia di un suicidio, si sentono reazioni del tipo: «Gino …! Nooh … non ci posso credere!!! ma dai …. come ha fatto …! Ma pensa te che l’ho incontrato proprio ieri sera, al bar, era normale e tranquillo…. Non può essere: non ha lasciato trapelare niente. Eppure, magari ci pensava già da tempo …. Chissà da quanto. Però … adesso che ci penso … quando ci siamo lasciati ha fatto una battuta strana: ha detto … “chissà se ci sarà un’altra occasione …!”. Lì per lì, mi ha lasciato perplesso, più per il tono con cui l’ha detta che per il contenuto. E io, stupido!, non ho sospettato nulla gli ho subito risposto: “ma certo, Gino, che ci rivediamo: se non ci vediamo qui al bar, chiamami! Sai che ci sono e che ti voglio bene!”. E non ci ho dato troppo peso … anche perché Gino era solito fare battute un po’ strane. Chi l’avrebbe mai detto …! Poveretto! Chissà quanta sofferenza aveva dentro per arrivare a tanto … Però, questa non me la doveva proprio fare …”.

Se la reazione delineata è verosimile, essa rivela che nel caso del suicidio tradizionalmente inteso è come se il suicida già si fosse ritirato o isolato dal gruppo prima di compiere l’atto. Forse anche per questo la società reagisce male e, quasi si senta come “tradita”, pone sul punto una sorta di stigma e rende il suicidio tradizionalmente inteso una “opzione conturbante”, come dice D’Agostino: opzione che diventa ancora più sconvolgente se si tratta di un giovane con svariate potenzialità di fioritura. Lo sconcerto per la morte cruenta del suicida viene acuito dal pensiero dell’enorme dolore interiore che si presume abbia scatenato il gesto estremo e che avrebbe forse potuto essere alleviato e rimediato se non fosse stato tenuto segreto e nascosto.

Come indica il Comitato, l’assistenza al suicidio fa sì che la situazione cambi radicalmente: la progettazione della morte esce dal segreto e diventa pubblica, e ciò rende possibile una valutazione intersoggettiva della pratica. Ciò non risolve tutti i problemi, ma è sicuramente di aiuto. Il suicidio viene socializzato e, in un senso, anche condiviso, cessando di essere un atto solitario, compiuto in solitudine e segretezza. Si apre anche la possibilità e l’opportunità di una valutazione pubblica delle alternative possibili, per cui, nel caso si arrivi alla decisione finale, questa non coglie più di sorpresa. Manchiamo di esperienze circa il suicidio medicalmente assistito, e quindi è difficile fare previsioni sugli eventuali futuri sviluppi della pratica. Va però sottolineato che è una forma di suicidio nettamente distinta dal suicidio tradizionalmente inteso: il Parere ha indicato questa distinzione innovativa, e quest’aspetto conferma come non sia mero lavoro dossografico.

3. Una terza osservazione riguarda la contrapposizione paradigmatica tra laici e cattolici, che sin dagli anni ’80 del secolo scorso ho proposto e sostenuto, e la cui storia è stata poi ricostruita da Giovanni Fornero nel suo noto volume. Per Pessina sarebbe una “semplificazione […] fuorviante” leggere “con categorie religiose […] secondo il solito schema laici e cattolici” le adesioni pro o contro il suicidio medicalmente assistito del CNB. Tale semplificazione sarebbe introdotta al fine di mettere fuori gioco i cattolici, la cui posizione sarebbe resa insignificante relegandola nel recinto del “fideismo”: la convergenza tra ebraismo e cattolicesimo confermerebbe che la contrapposizione laici/cattolici non corrisponde ai fatti, ma è frutto di mera ideologia (una falsificazione della realtà). Senza dire nulla circa la presunta ideologicità o meno della contrapposizione, nel suo commento Savarino dichiara esplicitamente di concordare con Pessina sul punto che la diversa posizione sul suicidio medicalmente assistito “non sia questione di appartenenze religiose o di distinzioni tra laici e cattolici”. Conclude osservando che Pessina commette una “svista” quando ricorda solo la convergenza tra ebraismo e cattolicesimo, e dimentica quella tra cristianesimo riformato e laicismo, che confermerebbe la tesi generale.

Diversamente da Pessina e Savarino a me pare che le posizioni pro e contro il suicidio assistito espresse nel CNB confermino appieno la contrapposizione laici/cattolici, che va però affinata: hanno votato contro gli appartenenti alle religioni “più antiche”, cioè ebrei e cattolici romani “magisteriali” (attenti al Magistero ecclesiastico), e hanno votato a favore gli appartenenti alle religioni “più moderne”, cioè cristiani riformati, cattolici romani “adulti” o “sociologici”, e laici. Anche queste categorie generali, poi, richiedono ulteriori qualificazioni e affinamenti. L’ebraismo non è una religione monolitica, ma presenta prospettive diverse, e quella espressa nel CNB non è l’unica: ci sono ebrei pro suicidio assistito. Considerazioni simili valgono per il cristianesimo riformato, al cui interno non mancano punte di fondamentalismo: ci sono protestanti nettamente contrari al suicidio assistito.
 
Altre precisazioni andrebbero fatte circa il cattolicesimo “adulto” o quello “sociologico”, che sono realtà molto magmatiche. Altre ancora circa l’orientamento laico o laicismo, le cui versioni sono ancora più fluide e non sono affatto immuni dalle influenze delle sopravvivenze culturali e dei memi, aspetti che portano alcuni laici a attingere a culture molto antiche (esempio Giuliano Ferrara faceva riferimento alla roncola, attrezzo primitivo la cui menzione rimanda a una civiltà antica e primordiale). Inoltre, non bisogna dimenticare che, come in tutte le curve gaussiane, le frange estreme sfuggono e abbisognano di spiegazioni particolari, e che qualcosa di simile capita con lo schema laici/cattolici che, però, sostanzialmente regge e indica una situazione largamente descrittiva e verificabile.

La contrapposizione laici/cattolici non è un’arma ideologica apprestata per bollare come “fideistica” la posizione dei cattolici contraria al suicidio assistito, e metterla da parte. Nasce invece dalla constatazione che “religione” è l’atteggiamento informato a una visione del mondo, basata sulla credenza in un Ente trascendente originario e rivelatosi all’uomo, che conferisce senso all’esistenza e propone linee di condotta, e che l’adesione a una religione è una cosa seria, che plasma il modo di vedere e influenza le condotte individuali e sociali delle persone. È perché prendo sul serio e valorizzo la religiosità e la sua influenza pratica che rilevo poi la contrapposizione laici/cattolici. Negarla o dire che lo schema laici/cattolici è fuorviante, equivale a dire che l’adesione a una religione è qualcosa che conta poco o nulla, che sarebbe qualcosa di marginale o secondario per l’orientamento delle vite delle persone. È questo che vogliono sostenere Pessina e Savarino? Non è svalutare la religiosità e il suo significato profondo?

La contrapposizione laici/cattolici non nasce da intenti “ideologici”, anche se riconosco che la sua formulazione può apparire un po’ grossolana e molto dipendente dalle polemiche circa la situazione italiana, in cui forte è l’influenza della Chiesa cattolica romana. Dagli anni ’90 ho mutuato da Kuhn il termine “paradigma” per indicare una “visione del mondo complessiva dotata di una propria coerenza interna”, e (cfr., tra altri, il mio volume su Eluana Englaro, Pendragon, Bologna, 2008) ho riformulato la tesi mostrando che la contrapposizione è tra il “paradigma ippocratico” e il nuovo “paradigma bioetico”: posizione compatibile con quanto rilevato sopra circa le “religioni più antiche” contrapposte a quelle “più moderne”. Nelle prime, la religiosità è qualcosa di “naturale” e quindi il paradigma riesce a fornire argomenti contro il suicidio; mentre nelle altre la religiosità è frutto solo di “fede” o di “scelta”, e ciò può comportare o comporta soluzioni diverse sul tema. Resta che lo schema laici/cattolici sostanzialmente tiene, e che le adesioni espresse dal CNB sono indicative del mutamento di atteggiamento che in Italia si ha sul problema.
 
4. Dopo aver bollato come fuorviante lo schema laici/cattolici, Pessina propone come chiave interpretativa non ideologica della realtà attuale la contrapposizione tra “un modello politico-culturale di stampo solidaristico e comunitario e un modello politico-culturale di stampo liberistico e individualistico”. Savarino, però, ha subito replicato che “è precisamente per ragioni solidaristiche” che in situazioni come quelle di Fabiano Antoniani i protestanti italiani riconoscono il diritto all’autodeterminazione “fino al punto da acconsentire alla loro richiesta di essere aiutati a morire”. Questa replica getta dubbi sull’idea che la contrapposizione di Pessina tra i due modelli politico-culturali non sia ideologica e riesca davvero a spiegare i contrasti sul tema. Per dirimere la questione è necessario ricostruire l’argomento di Pessina.

Pessina parte dall’assunto che “non esiste alcun diritto alla morte”. Riconosco che in un breve intervento non si può spiegare tutto, ma una premessa così importante (e tutt’altro che ovvia) avrebbe dovuto essere precisata. Sulla scia di Joel Feinberg, con “diritto” (morale) si intende oggi una “pretesa valida avanzata verso terzi che prevale su vincoli derivanti da considerazioni di carattere sociale”. Chi detiene un diritto, può esigerne il rispetto anche contro superiori esigenze di carattere sociale: esempio, se la maggioranza dei proprietari di un palazzo volesse abbatterlo o venderlo in toto, e il proprietario di un appartamento fosse contrario, il diritto di costui prevale sulle esigenze sociali. Sostenere questo non è frutto di individualismo, ma è rispetto delle esigenze personali in linea con prospettive sociali.

La pretesa valida propria di un diritto può riguardare oggetti (il diritto all’eredità) o azioni (il diritto allo studio, cioè all’azione di studiare). Non sono sicuro che la propria “morte”, intesa come condizione di non-esistenza di sé, sia un oggetto tale da non poter rientrare nell’ambito di ciò che vale come diritto: ci devo pensare, perché la situazione è intricata. Ma non riesco a capire come mai una persona non possa avere un diritto a fare l’azione che anticipa la morte al fine di garantire la propria dignità e/o diminuire sofferenze ritenute ormai inutili . Solo chi continua a idealizzare le situazioni di fine vita può continuare a pensare che non ci sia il diritto (morale) di proteggere se stessi e la propria dignità a fronte di condizioni insopportabili. Se è vero che uno Stato civile, come dice Pessina, “non abbandona i propri cittadini alla morte”, allora questo Stato dovrebbe al più presto riconoscere e sostenere il diritto morale col sigillo della legalità.

A favore di questo diritto a fare azioni che causano la propria morte per tutelare la propria dignità e il proprio benessere stanno ragioni che derivano non dall’individualismo solipsista (come dice Pessina), ma dalla benevolenza reciproca, ossia l’atteggiamento simile o analogo a ciò che Pessina chiama solidarismo. Paradossalmente, infatti, sono le nuove conoscenze e capacità di intervento messe a disposizione dalla medicina che consentono di conoscere il processo biologico del morire in sé e nelle sue varie fasi, e tutto ciò porta a una socializzazione del morire, una socializzazione strutturale, che alimenta il nuovo atteggiamento morale.

È vero, la sovrabbondanza delle tecniche unite a altri fattori ha fatto sì che spesso si lasci il morente in compagnia delle sole macchine e che sia abbandonato a una solitudine sociale. In passato, invece, come ben sottolineato da Philippe Aries, il morente era circondato dagli affetti e non era in solitudine sociale. Aveva però una solitudine strutturale, perché il processo biologico del morire era del tutto solitario nel senso che non era noto e non ci si poteva fare nulla. Oggi, invece, l’intero fine vita è strutturalmente socializzato, perché conoscenze e capacità d’intervento portano a condividere informazioni e scelte sul da farsi. Nelle nuove circostanze storiche, la benevolenza reciproca sollecita il nuovo atteggiamento etico che tende a garantire la dignità e il benessere delle persone anche alla fine della vita, e che per questo porta a riconoscere il diritto al suicidio medicalmente assistito.

In breve: il riconoscimento di questo diritto non è frutto di individualismo egoistico ma di benevolenza reciproca che porta a riconoscere alle persone il diritto a azioni a tutela della propria dignità e benessere. La contrapposizione tra i due modelli politico-culturali proposta da Pessina non riesce a spiegare la natura dei contrasti oggi presenti sul suicidio assistito e forse è ideologica. Di fatto, anche molti cattolici romani non individualisti hanno seri dubbi sul divieto, e questo spiega il risultato interno al CNB.
 
 
Maurizio Mori
Ordinario di Filosofia Morale e Bioetica,Università degli Studi di Torino
Presidente Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica


06 agosto 2019
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