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La pandemia come occasione per eliminare l’industria del tabacco?

di Alberto Donzelli

09 MAR - Gentile Direttore,
i grande epidemiologo John Ioannidis ha pubblicato su Lancet Global Health la proposta di approfittare della pandemia per eliminare l’industria del tabacco. I motivi per farlo sarebbero fortissimi. Solo dal punto di vista sanitario, la stima dei morti da Covid-19 nel mondo, 2,6 milioni nel 1° anno, è 3 volte inferiore agli oltre 8 milioni di morti annui che stime OMS attribuiscono al fumo e in generale al tabacco: 7 milioni/anno per fumo attivo, 1,2 milioni per fumo passivo.
 
Inoltre è verosimile che l’eccesso di mortalità da Covid-19 duri un tempo definito, mentre il mercato globale del tabacco ha continuato a crescere del 3% circa all’anno, e senza un deciso contrasto alle sue dinamiche si manterrà, anzi potrà ancora crescere.
 
Il paragone, però, non rende ancora l’idea dello squilibrio tra i due rischi. Si prenda l’esempio dell’Italia, uno dei paesi nel mondo con il maggior eccesso di mortalità da Covid-19 rispetto alla mortalità media del quinquennio precedente (benché parte di tale eccesso non sia probabilmente attribuibile alla Covid-19, ma a errori in alcune strategie di risposta adottate e nella gestione di singoli casi, su cui si sta aprendo un dibattito tra medici).
 
In Italia gli eccessi di mortalità attribuibile possono sembrare simili tra pandemia e tabacco, entrambi accreditati di circa 90.000 morti/anno, ma gli anni di vita persi a causa del fumo sono davvero molti di più.
 
Infatti secondo l’ISS le caratteristiche dei deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 al 27-1-21 (ultima infografica pubblicata su Epicentro) mostravano un’età media di 81 anni (e 83 come mediana). In particolare, le donne decedute dopo aver contratto un’infezione da Sars-CoV-2 avevano alla morte una mediana di 86 anni, gli uomini di 80 anni.
 
Dunque, benché tutte le morti siano dolorose e quelle precoci da Covid-19 non siano mancate, i morti positivi a Sars-CoV-2 non hanno mediamente perso anni di vita quanto i morti da fumo. Infatti nel 2019 l’aspettativa di vita era stata 85,4 anni per le donne italiane e 81,1 per i maschi (dati ISTAT).
 
Invece in coorti recenti i morti da fumo hanno perso in media 11 anni di aspettativa di vita,e le loro vite - pur così accorciate - sono comunque gravate anche da un eccesso di disabilità rispetto alla media dei non fumatori di pari età e sesso.
Dunque per iniziare a correggere il confronto, anche a parità di numeri di morti il fumo fa perdere in Italia un numero di anni di vita maggiore di un ordine di grandezza rispetto ai deceduti positivi al Sars-CoV-2.
 
Inoltre il fumo è un fattore di rischio che sottende anche una parte notevole dei morti positivi al Sars-CoV-2, poiché condizioni croniche cardiovascolari, tumorali, respiratorie, metaboliche… predisponenti a una cattiva prognosi della Covid-19 hanno spesso il fumo come fattore di rischio causale. Anche in generale per le malattie infettive il fumo è un importante fattore di rischio, e ciò vale anche per la gravità e la letalità per chi contrae una Covid-19.
 
Si aggiunga che il fumo non è solo “una scelta personale, che danneggia chi la compie risparmiando gli altri”. Infatti ormai si stima che anche il fumo passivo, oltre a generare una quantità di problemi di salute in chi vi è esposto pur non essendo fumatore, causi anche in Italia quasi 1.500 morti/anno, per non dire della perdita di costi-opportunità per l’enorme ammontare di risorse consumate nella cura di patologie da fumo, potenzialmente prevenibili,distolte da impieghi per condizioni che prevenibili non sono.
 
Gli argomenti principali per non impegnarsi a farla finita con l’industria del tabacco sono legati ai danni economici e alla perdita di posti di lavoro, oltre alla difesa del principio della libertà di scelta (che invece non sembra valere per parte delle misure adottate nella lotta alla Covid-19).
 
Volendo guardare alla pandemia anche dal lato delle opportunità, la risposta messa in campo nella società può costituire un precedente anche per azioni drastiche contro il tabacco.
Misure che hanno trovato giustificazione sociale nel contrasto alla pandemia hanno distrutto molti settori dell’economia in modo rapido e profondo: viaggi, turismo, ristoranti, spettacolo, negozi di vendita al dettaglio... La quota complessiva di questi mercati prima della Covid-19 eccedeva di gran lunga il mercato del tabacco.
 
L’Eurozona ha avuto un drammatico decremento annuo del PIL, la ripresa è incerta e ogni ulteriore lockdown può aumentare il danno.
 
Nel mondo si stimano 100 milioni di posti di lavoro associati al tabacco: 40 nelle coltivazioni e lavorazione delle foglie, 20 nelle industrie produttrici, i restanti nella distribuzione, vendita e promozione. Questi numeri sono inferiori a quelli dei posti di lavoro persi per i lockdown da pandemia: 400 milioni di posti a tempo pieno equivalenti nel solo 2° trimestre 2020.
 
Nella transizione necessaria per arrivare a eliminare l’industria del tabacco e riconvertire chi vi lavora si potrebbe mettere in campo una rete di sicurezza per ridurre la povertà, simile a quelle attivate per la disoccupazione da Covid-19. Senza contare che l’uso di tabacco contribuisce di per sé alla povertà, per le spese catastrofiche e la perdita di lavoro dovute a malattie da tabacco. Alla fine del percorso a beneficiare di più sarebbero le popolazioni più povere, ed eliminare il fumo sarebbe un potente fattore di riduzione delle disuguaglianze sociali.
 
Certo servirebbero grandi sforzi anche nel counselling, nel supporto alle cessazioni e per gestire le crisi di astinenza tra i fumatori dipendenti, ma finalmente le cessazioni aumenterebbero davvero.
Una transizione di alcuni anni potrebbe consentire una graduale ma decisiva riduzione fino alla possibile eliminazione del fumo.
 
L’obiezione che gli Stati perderebbero le entrate dalla tassazione del fumo regge solo in parte, poiché il denaro oggi speso per acquistare tabacco rovinando la salute sarebbe speso per altri beni e servizi, che pure genererebbero occupazione e gettito.
 
Nella pandemia, mentre alcuni settori dell’economia sono stati compressi o distrutti, l’industria del tabacco sembra finora esser riuscita a usare la crisi a suo vantaggio, coltivando potenti relazioni pubbliche, un marketing aggressivo di nuovi prodotti, verso i giovani e nei paesi con meno strumenti normativi di contrasto; e risorse finanziarie per fare whitewashing, anche tramite beneficenza, donazioni di equipaggiamenti protettivi, respiratori e altri supporti sanitari.
Ioannidis propone alcune strategie realistiche, come lo stabilire una chiara data futura di messa al bando delle vendite, una transizione con vendite solo attraverso esercizi statali, con tassazione progressiva. Un’altra strategia utile sarebbe comprare coltivazioni di tabacco in paesi produttori, supportando la riconversione agricola e della forza lavoro relativa.
 
La convenzione OMS sul controllo del tabacco presenta modelli per la necessaria cooperazione globale per eliminare l’industria del tabacco.
Sarebbe un disastro peggiore della pandemia se questa industria uscisse tra i vincitori in questa crisi globale, migliorando immagine e fatturato. Invece, ora che l’emergenza ha reso accettabili decisioni e azioni per la salute finora impensabili, c’è un’opportunità unica per eliminare l’industria del tabacco, in coerenza con il Piano Cancro formalmente approvato dall’UE, che punta entro il 2040 a una “generazione senza tabacco”.
 
Se i governi globali faranno propria l’idea e metteranno in pratica strategie coerenti, si potrà dire con Ioannidis che la pandemia ha prodotto anche benefici.
 
Dott. Alberto Donzelli
Esperto di Sanità Pubblica, Comitato scientifico Fondazione Allineare Sanità e Salute

09 marzo 2021
© Riproduzione riservata

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