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Trapianto di cuore e organi artificali. Dalla pompa VAD al cuore meccanico. A colloquio con Nanni Costa e Gerosa

di Viola Rita

Dopo l'intervento di trapianto di cuore artificiale a Parigi, abbiamo parlato delle nuove frontiere tecnologiche in trapiantologia con il direttore del Cnt Alessandro Nanni Costa e con il cardiochirurgo di Padova Gino Gerosa. In corso lo sviluppo di sistemi transdermici, che non necessiteranno di alimentazione esterna

27 DIC - Il primo trapianto di un cuore artificiale autonomo ad alimentazione elettrica – realizzato dall’azienda Carmat - è stato appena effettuato, all’ospedale George Pompidou di Parigi, su un paziente affetto da insufficienza cardiaca terminale. Non solo in Francia, ma anche in Italia, diverse tecnologie innovative si sono affacciate da anni sulla scena medico-sanitaria per garantire il recupero e la sopravvivenza di malati cardiopatici con grave scompenso cardiaco: i monoventricolari VAD (Ventricular Assist Devices – Dispositivi di Assistenza Ventricolare) e il biventricolare cuore artificiale sono due esempi di tecnologie applicate sui pazienti già da tempo nel nostro paese.
 
A parlarne con QS, sono Alessandro Nanni Costa, Direttore del Centro Nazionale Trapianti (CNT) e Gino Gerosa, Professore di Cardiochirurgia presso l’Azienda Ospedaliera/Università di Padova. 
In Italia, si osserva una riduzione del numero di cuori disponibili per trapianto. “Questo avviene non perché siano diminuite le donazioni, ma perché sono cambiate le caratteristiche dei donatori ed è aumentato il numero di donatori ‘inadeguati’. Essi sono sempre più anziani e spesso presentano fattori di rischio per malattia coronarica, diabete o ipertensione”, ci ha detto Gino Gerosa. L’Azienda Ospedaliera/Università di Padova, insieme al Niguarda Ca’ Granda di Milano (Professor Luigi Martinelli) sono i principali centri di riferimento italiani per l’impianto dei dispositivi cardiaci. “Nel 1985, l’età media del donatore era di 18 anni (sovente un ragazzo giovane che moriva per un incidente di moto battendo la testa – prima che entrasse in vigore l’obbligo del casco), mentre ora si tratta di una persona di età media di 40 anni (ma che spesso ha 50, 55 o 60 anni) che muore per emorragia o ischemia cerebrale, delle patologie che hanno un impatto sul cuore. L’invecchiamento e il cambiamento della tipologia del donatore spinge allo sviluppo di nuove tecnologie terapeutiche”.
 
Una soluzione possibile per un certo tipo di pazienti affetti da insufficienza cardiaca terminale è il Ventricular Assist Device (VAD). “Questo apparecchio viene posizionato all’interno di uno dei due ventricoli, solitamente quello sinistro, per aiutarne la funzione: si tratta di una pompa a flusso continuo - una sorta di centrifuga veloce – che eietta il sangue in aorta; in questo caso il cuore del paziente resta in sede”, prosegue Gerosa.
 
Riguardo ad esso, siamo davanti a “qualcosa di veramente nuovo e promettente”, spiega Alessandro Nanni Costa. “La procedura è assolutamente validata, e nel 2012 sono stati impiantati circa 80 VAD e nel 2013 fra gli 80 e i 100. Questi dispositivi – che sono alla terza generazione e arriveranno alla quinta - ad oggi mostrano delle performance paragonabili a quelle che si hanno col trapianto di cuore. Noi stiamo guidando un team di lavoro che comprende il Centro Nazionale Trapianti e i principali gruppi italiani autorizzati al trapianto di cuore e gruppi di Cardiochirurgia con esperienza di VAD, con un mandato per lo studio delle grandi insufficienze, frutto di un accordo Stato-Regioni. In questo lavoro di raccordo, cui prendono parte professionisti e istituzioni come l’Age.Na.S (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), stiamo definendo le linee guida per l’uso dei VAD: infatti è necessario stabilire una regolamentazione, omogenea sul territorio, rispetto alle modalità di accesso, la verifica delle performance e il controllo di tutta una serie di parametri relativi a questi device”.
 
Una prospettiva, quella dei VAD, che sta assumendo un’applicabilità a medio-lungo termine: in generale, alcuni di essi sono utilizzati come ‘bridge’ per un periodo breve (che può arrivare ad alcuni mesi), altri come ‘destination therapy’, cioè come apparecchi definitivi che non richiedono un trapianto successivo di un cuore umano: “almeno il 20% sono di questo tipo, ma il numero può cambiare di anno in anno proprio perché il sistema è innovativo. L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha avuto uno dei primi casi caso di ‘destination therapy’ su un paziente non trapiantabile”, prosegue Nanni Costa. “In generale, ad oggi il costo di questi device è di circa 100.000 euro nel primo anno e circa 30.000 euro negli anni successivi. Una spesa non eccessivamente elevata: per fare un paragone è pari a circa sei volte quella relativa ad una dialisi nel primo anno e circa due volte quella di una dialisi negli anni successivi”.
 
Una soluzione differente consiste nel trapianto di cuore artificiale, in attesa di un trapianto di cuore umano. “Il cuore artificiale è utilizzato nei pazienti gravissimamente malati”, ha spiegato poi Gerosa. “Esso, infatti, è in grado di prendersi cura di entrambi i ventricoli, dato che sostituisce l’intero organo e – tolto il rischio di complicazioni tromboemboliche – non necessita di farmaci antiaritmici, come invece accade per il VAD. Nel 1982 negli Stati Uniti il dottor William De Vries impiantò un cuore artificiale su un malato. In Italia, nel 2007 abbiamo effettuato il primo trapianto di questo genere, chiamato CardioWest, su un paziente che è sopravvissuto per oltre quattro anni prima di ricevere un cuore umano: si tratta della sopravvivenza più lunga con questo tipo di organo. Anche il cuore francese di Carmat è al momento provvisorio e non definitivo. L’obiettivo della ricerca è che questi organi artificiali possano in futuro diventare ‘destination therapy’, eliminando la necessità di impiantare un cuore umano e quindi garantendo ad libitum la sopravvivenza del paziente”.
 
Altro obiettivo è quello di garantire “una maggiore biocompatibilità delle superfici interne per evitare fenomeni tromboembolici e una migliore qualità della vita. Al di là del rischio di infezione e della necessità di seguire costantemente il paziente, il limite fisico del VAD e del cuore artificiale riguarda la fonte di alimentazione esterna: il paziente deve essere connesso alla sorgente di energia. Il cuore a funzionamento pneumatico prevede due tubicini che escono dall’addome del paziente e che lo collegano a un compressore esterno. Il cuore di Carmat è dotato di cavetti che devono essere connessi esternamente a batterie”, illustra Gerosa. “L’evoluzione tecnologica dovrebbe permettere in futuro la possibilità di una trasmissione transdermica ad esempio nel VAD, per evitare che ci siano cavetti da collegare alle batterie esterne: la presenza di una batteria all’interno del torace del paziente gli permetterebbe di fare una doccia o di nuotare completamente scollegato dal device; tali sistemi sono in fase di sviluppo”.
 
In generale, i VAD, il cuore artificiale e le altre tecnologie rappresentano opportunità promettenti sia nel presente che nel futuro. Ad esempio, facendo un paragone con quanto avvenuto in passato, nella malattia renale “qualche decina di anni fa il rene artificiale e la dialisi hanno cambiato le prospettive di vita dei pazienti: infatti oggi in Italia circa 40.000 persone sopravvivono grazie alla dialisi”, conclude Nanni Costa.

Viola Rita

27 dicembre 2013
© Riproduzione riservata

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