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Speciale Asco. Curare il tumore rispettando la qualità di vita dei malati. La sfida dell’oncologia del terzo millennio

di M. R. Montebelli

L’oncologia ha fatto molti progressi negli ultimi decenni, che si sono tradotti in un allungamento della vita. E’ dunque arrivato il momento di preoccuparsi seriamente anche della qualità di vita dei pazienti oncologici e alcuni studi presentati all’ASCO vanno appunto in questa direzione.

31 MAG - Nella lotta esasperata contro il tumore, è accaduto spesso in passato di dimenticarsi del protagonista del trattamento, cioè del paziente. In un’ottica di cronicizzazione della malattia oncologica, oggi più che mai, il paziente con il suo benessere e i suoi progetti di vita, devono essere considerati obiettivi prioritari. Si va dunque verso una filosofia di trattamento ‘mano di ferro, in guanto di velluto’ e si testano strategie per restituire ai pazienti il gusto della vita, oltre che dilatare in astratto il tempo della loro sopravvivenza. E’ possibile ad esempio ridurre in sicurezza i dosaggi di alcuni trattamenti, per migliorare la qualità di vita dei pazienti e mettere in atto alcune strategie che consentano di preservare la fertilità nelle giovani donne. Un ricorso anticipato alle cure palliative infine, consente di migliorare l’esistenza non solo dei pazienti, ma anche delle loro famiglie.

Mamme dopo la chemioterapia. Uno studio di fase III finanziato dai NIH (S0230/POEMS) sul goserelin (analogo dell’LHRH) in aggiunta alla chemioterapia standard, dimostra che questa terapia ormonale riduce in maniera drammatica (- 64%) il rischio di insufficienza ovarica prematura, indotta dalla chemioterapia, nelle donne con tumore della mammella triplo negativo in fase precoce. Le donne sottoposte a questo trattamento hanno potuto portare avanti un progetto di maternità dopo le terapie oncologiche e anche la loro sopravvivenza è risultata migliorata. Il goserelin mette temporaneamente a riposo la funzione ovarica, determinando in pratica una menopausa ‘artificiale’, ma reversibile alla sospensione del trattamento. Questo sembra proteggere i follicoli ovarici dal danno indotto dalla chemioterapia. Lo studio ha interessato 257 donne in età fertile, con tumore della mammella triplo negativo in stadio precoce (stadio I-IIIA), sottoposte a trattamento chemioterapico comprendente ciclofosfamide, oppure a chemioterapia più goserelin (iniezioni mensili, a cominciare da una settimana prima della chemioterapia). A due anni dalla chemioterapia, solo l’8% delle donne del braccio goserelin presentava disfunzione ovarica, contro il 22% di quelle non trattate. Tra le donne trattate con goserelin ci sono state inoltre 16 gravidanze a termine, contro le 8 del gruppo trattato con sola chemioterapia. A sorprendere i ricercatori è stato infine il riscontro che il trattamento con goserelin sembra influenzare anche la sopravvivenza libera da malattia e quella globale. Le donne del braccio goserelin avevano il 50% in più di chance di essere vive a 4 anni dal trattamento rispetto a quelle trattate con sola chemioterapia.
 
Un trattamento per le metastasi ossee, più dilazionato nel tempo.La terapia a base di acido zoledronico per la prevenzione delle fratture nelle donne con tumore della mammella e metastasi ossee è risultata altrettanto efficace se somministrata ogni tre mesi, anziché su base mensile, come avviene attualmente; dilazionare la somministrazione inoltre, può ridurre il rischio di alcuni rari ma gravi effetti indesiderati, come l’osteonecrosi della mandibola e problemi renali.  Attualmente il farmaco viene somministrato ad intervalli di 4 settimane per un anno a partire dalla scoperta delle metastasi ossee. Si ritiene che questo trattamento andrebbe proseguito a tempo indeterminato, ma preoccupa molto il rischio dei suoi possibili gravi effetti indesiderati e al momento dunque, non essendo state condotte ricerche ad hoc sul programma di trattamento oltre il primo anno, le linee guida non forniscono indicazioni al riguardo. Nello studio OPTIMIZE-2,  403 pazienti con metastasi ossee da tumore della mammella, già sottoposte ad un anno di terapia con acido zoledronico, sono state assegnate a due gruppi di trattamento: acido zoledronico ogni mese oppure ogni tre mesi per un altro anno. Al termine dello studio, il tasso di eventi scheletrici (fratture a carico di ossa lunghe e vertebre, compressioni midollari e altre complicanze derivanti dalle metastasi ossee) è risultato sovrapponibile tra i due gruppi (22% nel braccio ogni mese versus 23,2% nel braccio trimestrale), dimostrando così che lo schema di somministrazione trimestrale è altrettanto valido di quello mensile. Non sono state rilevate neppure differenze nell’impiego di farmaci anti-dolorifici tra i due gruppi. Nel braccio di somministrazione mensile, sono stati registrati due casi di osteonecrosi della mandibola; nessuno nell’altro gruppo.
 
Cancro dell’oro-faringe: arriva la radioterapia ‘leggera. ‘Meno è meglio’ è la filosofia anche di uno studio, condotto su pazienti con tumori testa-collo HPV-positivi (cancro dell’oro-faringe) daAnthony Cmelak, professore di  radioterapia e oncologia presso il Vanderbilt-Ingram Cancer Center di Nashville (USA) efinanziato dai NIH. Ridurre la dose delle radiazioni non compromette gli esiti della terapia, dimostra questo studio di fase II; il 95% dei pazienti erano ancora vivi a due anni e si risparmiano una serie effetti collaterali, spesso invalidanti per tutta la vita. La radioterapia ‘leggera’ utilizza un nuovo approccio che personalizza la dose di radiazioni, in base alla risposta della chemioterapia di induzione e altri fattori prognostici. Risultati molto promettenti secondo gli autori dello studio, che tuttavia necessitano di un maggior follow up e della conferma degli studi di fase III, prima di poter entrare nella pratica clinica. Il 70% di tutti i tumori dell’oro-faringe sono attribuibili all’HPV, con un’incidenza in aumento. I pazienti con tumori HPV-positivi tendono tuttavia ad avere una prognosi migliore delle forme HPV negative.
In questo studio, 90 pazienti con carcinoma squamoso dell’orofaringe HPV-positivo, in stadio III/IVa operabile, sono stati sottoposti a chemioterapia di induzione con paclitaxel, cisplatino e cetuximab; queste terapie rendono più sensibile il tumore ai trattamenti futuri, riducono il rischio di diffusione del tumore, predicono la sensibilità alla radioterapia e riducono gli effetti indesiderati del tumore stesso. I 62 pazienti che hanno presentato una risposta clinica completa alla chemioterapia di induzione (nessun segno di tumore all’esofagoscopia), hanno ricevuto una dose ridotta (54 Gy) di terapia radiante ad intensità modulata (IMRT), una tecnologia avanzata che manipola i fasci di radiazioni, per conformarli alla forma del tumore. Tutti i pazienti venivano inoltre ricevevano un trattamento con il cetuximab. I pazienti sottoposti a IMRT a bassa dose, a due anni presentavano una sopravvivenza senza progressione (PFS) dell’ 80% e una sopravvivenza complessiva (OS) del 93%.
La riduzione della dose di radiazioni garantisce una miglior qualità di vita, riducendo il rischio di effetti collaterali debilitanti e di lunga durata (problemi di deglutizione, secchezza delle fauci, perdita del gusto, rigidità del collo e problemi tiroidei). Il follow up di questo studio proseguirà fino al quinto anno, per registrare eventuali recidive tardive. Il trattamento radiante a basse dosi non è indicato nei tumori HPV negativi.

Un’ancora di salvataggio, via telefono.Le cure palliative arrivano anche via telefono e migliorano la qualità di vita. Nello studio ENABLE III, la somministrazione di un intervento strutturato per via telefonica, ha contribuito a  produrre un alleviamento della depressione e del burn out tra i care giver di pazienti oncologici, soprattutto se instaurato precocemente, in pratica all’indomani della diagnosi del tumore. I familiari sono una parte cruciale del team che si prende cura del paziente. Il benessere degli uni, influenza quello degli altri in modo reciproco.
 
L’introduzione di un supporto palliativo al momento della diagnosi di un tumore in fase avanzata, consente di ridurre la depressione dei care giver che si sentono così anche meno gravati dal peso dell’assistenza. In questo studio, 207 pazienti con tumore metastatizzato o recidivo e 122 care giver familiari, hanno ricevuto un supporto di cure palliative via telefono. In un gruppo, l’intervento è iniziato entro due settimane (immediato) dalla randomizzazione, nell’altro dopo 12 settimane (ritardato). Un gruppo di infermiere specializzate in cure palliative forniva un programma telefonico, seguito da cure di supporto ogni mese, rivolte ai care giver e ai pazienti, per via telefonica. Il programma consiste nello spiegare come gestire i problemi facendo ricorso alla creatività, all’ottimismo, alla capacità di pianificare e servendosi di informazioni fornite da esperti. Al termine dello studio, la qualità di vita dei care giver e lo stato depressivo risultavano migliorati più nel gruppo che aveva ricevuto supporto ‘immediato’, che in quello ‘ritardato’. “Troppo spesso purtroppo – afferma la professoressa Marie Bakitas, della Facoltà di Scienze Infermieristiche, Università dell’Alabama (USA)-  non vengono utilizzate pienamente tutte le risorse fornite dalle cure palliative, perché si introducono troppo tardi nel corso della malattia. Tanto i pazienti, quanto i care giver dovrebbero invece capire che le cure palliative non sono cure di fine vita, quanto piuttosto un supporto extra che può essere offerto insieme ai trattamenti curativi medici.”

Maria Rita Montebelli

31 maggio 2014
© Riproduzione riservata

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