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Alzheimer: ricercatori italiani fotografano la nascita della malattia. Possibile rivoluzione per screening e trattamento precoce

di Maria Rita Montebelli

La ricerca sull’Alzheimer parla sempre più italiano e apre le porte alla speranza di nuove terapie per contrastare questa malattia che riguarda oltre mezzo milione di italiani. Dopo la fondamentale ricerca su modello animale, pubblicata lo scorso anno dai ricercatori del Campus Biomedico, CNR e Fondazione Santa Lucia, arriva dall’Inghilterra, ma sempre a firma di due studiosi italiani, la conferma nell’uomo. Le alterazioni del sistema dopaminergico sarebbero alla base tanto del morbo di Parkinson che dell’Alzheimer e nell’Alzheimer riguarderebbero i neuroni dell’area tegmentale ventrale

28 MAR - Viene da due cervelli italiani fuggiti in terra d’Albione (Università di Sheffield, Gran Bretagna), la scoperta che potrebbe rivoluzionare la diagnosi precoce, e chissà, forse un giorno anche il trattamento di una delle malattie più temute del secolo, l’Alzheimer. Che l’ippocampo, la ‘banca’ delle nostre memorie, fosse implicato in questa patologia, si sapeva da tempo e questo ha portato a ritenere a lungo che il bandolo della matassa di questa misteriosa malattia andasse ricercato proprio in questa bizzarra area del lobo temporale mediale che ricorda vagamente un cavalluccio marino.
 
La malattia non origina dall’ippocampo ma dall’area tegmentale ventrale
E invece no, pare che le cose non stiano affatto così. Tanto che, i libri di neurologia, al capitolo Alzheimer dovranno essere riscritti, grazie alle scoperte della ricerca italiana. Protagonista delle fasi iniziali della malattia, non sarebbe la degenerazione dei neuroni dell’ippocampo, ma quella dei neuroni produttori di dopamina del’area tegmentale ventrale (VTA), che con i loro lunghi assoni rilasciano questo neurotrasmettitore, ben noto protagonista di una serie di altre patologie neurologiche psichiatriche, dal Parkinson, alla schizofrenia, nell’ippocampo.
 
Sarebbe insomma una ridotta produzione della dopamina destinata all’ippocampo, da parte dei neuroni dell’area tegmentale ventrale, a disturbare la formazione delle nuove memorie e a scatenare dunque la malattia di Alzheimer. Un meccanismo precocissimo di malattia, che precede di molto tempo la formazione delle famigerate placche di amiloide, noto ma grossolano marcatore della malattia che compare quando ormai la neurodegerazione è avvenuta in maniera irreversibile.
 
Lo studio sull’uomo
A dimostrare per primi che la neurodegerazione dei neuroni produttori di dopamina della VTA potrebbe rappresentare il primum movens dell’Alzheimer nell’uomo sono stati due italiani, la professoressa Annalena Venneri e il dottor Matteo De Marco, dello Sheffield Institute for Translational Neuroscience (SITraN) dell’ Università di Sheffield, cittadina inglese famosa per l’acciaio e per gli oggetti placcati argento.
Gli autori, che hanno pubblicato su Journal of Alzheimer’s Disease, hanno sottoposto a risonanza magnetica (RMN) a 3 Tesla, strutturale e funzionale, 51 adulti in buona salute, 30 soggetti con diagnosi di lievi alterazioni cognitive e 29 pazienti con diagnosi di Alzheimer. Tutti i partecipanti allo studio sono stati inoltre sottoposti a test neurofunzionali. Dal confronto degli esami nei diversi gruppi (volumi di VTA e ippocampo, performance della memoria, test delle competenze linguistiche) è emerso un legame tra volume e funzionalità della VTA, volume dell’ippocampo e capacità di apprendere nuove informazioni.
 
La dopamina, mediatore chiave nella patogenesi dell’Alzheimer
Una ridotta attività dopaminergica dei neuroni della VTA insomma potrebbe avere un ruolo cruciale nelle patogenesi iniziale della malattia di Alzheimer e dunque potrebbe essere implicata in nuove strategie di trattamento precoce.
“E’ questo il primo studio – sottolinea la professoressa Venneri – ad aver dimostrato queste alterazioni nell’uomo. Sono necessarie ulteriori conferme, ma questi risultati potrebbero suggerire un nuovo modo di screenare la popolazione anziana con segni precoci di Alzheimer e potrebbero cambiare il modo di acquisire e interpretare le scansioni cerebrali utilizzando diversi test per la memoria ”.
 
Il fondamentale studio sul modello animale che ha aperto la strada a questa nuova scoperta.
Un grosso passo avanti alle ricerche sulla patogenesi della malattia era stato fatto lo scorso anno,con la pubblicazione su Nature Communications di uno studio dell’Università Campus Biomedico di Roma , CNR e Fondazione Santa Lucia. Questo lavoro aveva allargato la conversazione sull’Alzheimer, dall’ippocampo all’area tegmentale ventrale (VTA). Sono proprio i neuroni produttori di dopamina, presenti in quest’area, a portare attraverso i loro lunghi assoni la dopamina all’ippocampo e lo studio pubblicato lo scorso anno aveva dimostrato su modelli animali, affetti da forme genetiche di Alzheimer (topi Tg2576 che iperesprimono la APPsewe, una proteina precursore dell’amiloide umana mutata), che questi neuroni vanno incontro ad una degenerazione precoce. Una scoperta che aveva portato a spostare il baricentro della malattia dall’ippocampo, dove finora si era focalizzata la ricerca, alla VTA. Almeno nelle fasi iniziali di malattia. Per provare la loro ipotesi, i ricercatori romani, avevano somministrato agli animali levo-dopa (precursore della dopamina) e selegilina (agente che rallenta la degradazione della dopamina) dimostrando che, il ripristino di normali livelli di dopamina a livello dell’ippocampo, produceva un recupero della memoria nell’animale da esperimento.
 
Altro dato di grande rilievo è che i neuroni della VTA rilasciano dopamina, oltre che nell’ippocampo, anche nel nucleo accumbens, un’area implicata nella motivazione; privare quest’area di questo neurotrasmettitore provoca depressione, altro sintomo molto precoce (può precedere i disturbi della memoria) della malattia di Alzheimer.
 
Il futuro della ricerca sui trattamenti per l’Alzheimer
Esisterebbe insomma un parallelismo fisio-patogenetico tra Alzheimer e Parkinson che ha come filo conduttore la dopamina. Nell’Alzheimer, la degenerazione riguarderebbe i neuroni produttori di dopamina della VTA, incaricati di rilasciare il neutrotrasmettitore nell’ippocampo e nel nucleo accumbens; nel Parkinson, come da tempo noto, la degenerazione riguarda invece i neuroni della substantia nigra che rilasciano dopamina al corpo striato, centralina del movimento del nostro cervello.
 
Alla base di entrambi le malattie ci sarebbe la degenerazione del neuroni dopaminergici, della substantia nigra nel caso del Parkinson, della VTA nel caso dell’Alzheimer. Ma la causa di questo fenomeno resta per il momento sconosciuta. Queste ricerche rappresentano tuttavia un passo avanti clamoroso per la ricerca sull’Alzheimer che adesso dovrà cimentarsi nella scoperta di nuove strategie terapeutiche, capaci di intercettare e possibilmente bloccare questa terribile malattia sul nascere.
E chissà che queste importanti scoperte non tornino a motivare anche Big Pharma, a riprendere le ricerche su questa malattia.
 
Maria Rita Montebelli

28 marzo 2018
© Riproduzione riservata

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