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Alzheimer. Uno studio Usa lancia allarme: “Se arrivasse la cura in Europa non sareste pronti a gestirla”. È vero? Parla il Professor Rossini: “Il problema principale è fare diagnosi precoci. E l’Italia è all’avanguardia per la ricerca dei biomarcatori adatti”

di Maria Rita Montebelli

“L’Italia, con il progetto Interceptor, è l’unico paese che ha dato il via ad una ricerca per definire un modello organizzativo che ci indichi quale sia l’insieme di biomarcatori più accurato, più sostenibile sul piano finanziario e più distribuito sul territorio nazionale”. A disegnare lo scenario che si potrebbe creare in Europa se arrivasse la cura è stata la Rand Corporation con un dossier cha farà discutere

03 OTT - Le industrie del farmaco non hanno abbandonato la ricerca sull’Alzheimer e anzi annunciano in un futuro né troppo lontano, ma neppure vicinissimo (intorno forse al 2020-2022), l’arrivo di molecole innovative e rivoluzionarie per il trattamento di questa condizione.
 
Si va dagli anticorpi anti-beta amiloide, ai BACE inibitori e più in là a candidati vaccini e agli anticorpi anti-tau. Ma c’è un ‘ma’. Questi farmaci funzionano solo se somministrati  quando la malattia non è ancora conclamata; prima di pensare alla terapia dunque, è necessario individuare uno o più biomarcatori in grado di prevedere lo sviluppo della malattia, quando di questa non vi sia ancora traccia.
 
I pazienti con i prodromi dell’Alzheimer sono nascosti all’interno di una vasta fascia di soggetti (sarebbero circa 730 mila in Italia) che presentano i segni del cosiddetto ‘mild cognitive impairment’ (MCI); ma solo metà di questi svilupperanno la malattia ed è a questi devono essere riservati e dedicati questi farmaci prossimi venturi, che si preannunciano, come tutti i farmaci innovativi, costosi e non scevri di effetti collaterali.
 
I problemi all’ordine del giorno sono dunque l’allestimento di uno screening accurato, non troppo oneroso ed effettuabile in tutti gli angoli della penisola, la formazione di specialisti in malattia di Alzheimer e di neurologi con le giuste competenze per poter assegnare e somministrare questi farmaci innovativi,l’allestimento di un congruo numero di centri dotati di ambulatori infusionali (visto che molti di questi farmaci saranno dei biologici da somministrare per via parenterale).
 
Problemi organizzativi e di infrastrutture dunque, oltre che finanziari. Ma le strutture sanitarie e gli specialisti sono pronti ad accogliere questa rivoluzione terapeutica prossima ventura?
 
È la domanda alla quale ha cercato di dare una risposta una ricerca della RAND Corporation (vedi altro articolo), un importante e autorevole think tank statunitense, che è andato ad indagare lo stato di ‘preparazione’ di sei nazioni europee: Francia, Germania, Spagna, Svezia, Gran Bretagna, Italia.
 
Per l’Italia, i tempi d’attesa secondo questa ricerca potrebbero essere davvero lunghi (fino al 2040) e sarebbero influenzati soprattutto dalla capacità di far fronte all’infusione dei farmaci. Un altro collo di bottiglia è rappresentato dal ricorso alla PET come test di screening per la diagnosi precoce di Alzheimer; troppo poche le PET nel nostro Paese e già lunghi i tempi d’attesa. Altro problema, la carenza di specialisti in Alzheimer.
Per quanto riguarda gli specialisti in malattia di Alzheimer (neurologi, geriatri, psichiatri geriatri), un po’ ovunque se ne percepisce la carenza, che di certo è destinata a peggiorare con l’invecchiamento della popolazione. In Italia, tra tutte e tre queste categorie, ci sarebbero al momento 16 specialisti per 100 mila persone. Troppo pochi.
 
Un altro elemento questo che rischia di impattare sui tempi d’attesa del trattamento, bloccando il processo già al momento dello screening e della diagnosi. Secondo le stime dello studio RAND, se si riuscisse a risolvere il problema legato alla carenza di specialisti nel nostro Paese si potrebbero evitare (nell’arco di tempo stimato di tempo d’attesa massimo) 45 mila nuovi casi di Alzheimer (l’1%) e ben 146 mila (il 3%) risolvendo contemporanemente l’ostacolo degli ambulatori infusionali e degli specialisti.
 
Mancano insomma in Italia, come in altri Paesi europei, le risorse e le strutture necessarie per accogliere l’arrivo delle terapie innovative contro il morbo di Alzheimer. Una delle criticità principali risiederebbe nella carenza di specialisti in grado di diagnosticare in fase precoce la malattia, uno snodo fondamentale perché questi farmaci funzionano solo se somministrati molto precocemente nella storia clinica della malattia. E per la diagnosi precoce è necessario individuare un pannello di biomarcatori in grado di guidarla.
 
In Italia qualcosa si sta muovendo in questa direzione. E di importanza tale da poter impattare in maniera significativa sulle possibilità di screening della malattia non solo nel nostro Paese ma anche nel resto del mondo. Si chiama Progetto Interceptor.
 
Ne abbiamo parlato con il suo coordinatore, il professor Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore Area Neuroscienze della Fondazione Policlinico Gemelli Roma e coordinatore del progetto Interceptor del Ministero della Salute-Aifa.
 
Tutti i farmaci anti-Alzheimer sperimentati finora hanno fallito. Una delle spiegazioni che viene data a questo fenomeno è che la stragrande maggioranza di farmaci sperimentati sono stati provati su pazienti già con un quadro conclamato di demenza, anche se lieve o moderato. “Per questo – spiega il professor Rossini - adesso le sperimentazioni più promettenti si stanno spostando sulle forme di MCI (Mild Cognitive Impairment) prodromico ad Alzheimer o a demenza, che è una forma molto iniziale, nella quale la demenza vera e propria non si è ancora sviluppata.
 
L’MCI è un deficit cognitivo lieve che si misura con i test neuropsicologici e del quale sono affetti oggi oltre 730.000 italiani. “Di questi soggetti tuttavia – spiega il professor Rossini - solo la metà si ammalerà di demenza nell’arco di circa 3-5 anni; l’altra metà non si ammalerà mai. Ora, il problema che tutti i servizi sanitari si stanno ponendo, ma che nessuno ha finora risolto, a partire dagli Usa, è come riuscire ad intercettare quella metà ad altissimo rischio di ammalarsi e concentrare su questi soggetti l’eventuale costo del farmaco nuovo. Ma anche gli eventuali rischi, perché questi nuovi farmaci non solo saranno molto onerosi come costo per il servizio sanitario ma comporteranno anche rischi non banali (come microemorragie cerebrali), che varrà la pena correre solo nelle persone ad altissimo rischio di sviluppare la malattia”.
 
Quindi oggi il problema principale è quello di riuscire a fare una diagnosi precoce; ma questa viene effettuata all’interno del gruppo con MCI, dove solo la metà dei casi svilupperanno l’Alzheimer. Quel che più conta è riuscire ad intercettare in tempo solo quella metà di persone che si ammaleranno.
 
“Tutto ciò è possibile solo utilizzando dei biomarcatori; ma una cosa è parlare di biomarcatori quando si fa un trial clinico su 1.000-2.000 pazienti; un’altra è parlare di 700 mila persone, come è il caso in Italia o dei milioni di persone nel mondo”.
 
“Facciamo l’esempio della PET – afferma Rossini – persino il radiotracciante non costa meno di 1.000-1.500 euro. Bisogna invece individuare dei biomarcatori a basso costo, sostenibili sul piano finanziario e che siano effettuabili su tutto il territorio nazionale. In Italia abbiamo in tutto 55 PET che lavorano soprattutto per l’oncologia; non è pensabile intasarle di esami di screening su 700 mila persone, sottraendole ai malati oncologici e costringendo i pazienti a spostarsi da una città all’altra per effettuare questo esame. Altra caratteristica del biomarcatore ideale è di non essere invasivo; le stesse informazioni che dà la PET, si possono magari avere con una puntura lombare, che è però un esame rischioso e invasivo”.
 
“Ciò premesso – prosegue Rossini -  l’unico Stato che ha dato il via ad una ricerca per definire un modello organizzativo che ci indichi quale sia l’insieme di biomarcatori più accurato, più sostenibile sul piano finanziario e più distribuito sul territorio nazionale è proprio l’Italia con il progetto Interceptor, di cui sono il coordinatore nazionale.  Questo studio è partito lo scorso 30 luglio; 20 centri Italiani, distribuiti dal Piemonte alla Sicilia, recluteranno 500 pazienti con MCI, rilevando 7 biomarcatori al tempo zero (test neuropsicologici, risonanza volumetrica, PET-FDG, EEG per lo studio di connettività e il test genetico con l’ApoE) e seguendoli per tre anni e mezzo. Alla fine, siccome di questi 500 circa la metà convertirà in demenza, questo studio ci saprà dire qual è la combinazione migliore di biomarcatori per la diagnosi precoe di Alzheimer. Questo studio verrà effettuato su scala nazionale e prevede centri reclutanti e centri ‘esperti’ ai quali i centri reclutanti invieranno i campioni biologici o le immagini attraverso il web; i centri esperti emetteranno quindi la diagnosi di rischio”.
 
“Purtroppo – ammette Rossini - bisogna anche riconoscere che in Italia abbiamo poche persone veramente esperte di Alzheimer e io temo che oggi, pur avendo 500 centri Alzheimer in tutta l’Italia, alla stragrande maggioranza di questi pazienti la diagnosi venga fatta con un banalissimo esame di Mini Mental. Parliamo di una malattia molto seria, di un’etichetta in grado di rovinare la vita a famiglie e persone, che oggi viene ancora per lo più diagnosticata con un test che dura dieci minuti. Non si impiegano tecnologie e pochissimi pazienti vengono ricoverati. Perché il Servizio nazionale ritiene che non ci sia bisogno di un ricovero per fare una diagnosi di questa importanza. Un altro problema riguarda i Medici di medicina generale che non hanno competenze ed esperienza in questo settore”.
 
Semmai insomma dovesse arrivare un farmaco innovativo in grado di arrestare la progressione di questa malattia,  ci sarebbero molte cose da rivedere in questo settore.
 
E qualora un farmaco del genere dovesse mai arrivare, sarebbero centinaia di migliaia le persone che andrebbero sotto il Ministero della Salute a chiederne la somministrazione. “E il Ministero – spiega Rossini - attraverso lo studio Interceptor sta cercando di dotarsi di uno strumento per decidere a quali pazienti somministrare il farmaco e in quali andrà invece evitato, in mancanza di determinate caratteristiche. Un progetto del genere è unico al mondo, non ce l’ha ancora nessun altro Paese”.
 
Una storia insomma ancora tutta da scrivere quella della diagnosi precoce di Alzheimer attraverso dei biomarcatori, che consentiranno di selezionare i pazienti giusti ai quali somministrare i farmaci innovativi. Ma il progetto Interceptor potrebbe essere l’idea vincente. Un’idea tutta italiana.
 
Maria Rita Montebelli

03 ottobre 2018
© Riproduzione riservata

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