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La storia: intervista all'esperto svedese che cura il Piano di rientro della Calabria


14 APR - Ragnar Gullstrand è un elegante signore. Nato in Svezia, vive e lavora in Italia da molti anni, ma non ha perso il suo particolare accento straniero. Dopo una carriera da manager, esperto nel controllo di gestione, ha trasferito la sua esperienza al campo della sanità, prima in Piemonte e ora come consulente Agenas. In particolare, da mesi segue l’attuazione del Piano di rientro in Calabria.
 
Dottor Gullstrand, come è stato accolto in Calabria?
Se qualcuno venisse da me, in Svezia, a dirmi cosa devo fare io mi sentirei un po’ come “invaso”. Invece ho trovato reazioni controllate. Ho anche chiesto esplicitamente al direttore sanitario di una Asl calabrese cosa ne pensasse. Mi ha risposto soltanto: “Imparo in fretta”.
 
Come si fa un Piano di rientro?
C’è una strada più semplice e una meno semplice. La più semplice è decidere di “tagliare” una certa percentuale su ogni voce in bilancio. Ma questo manda in crisi i servizi, porta la situazione in emergenza e costringe a interventi di tamponamento, con nuove spese.
Poi c’è una via più difficile, che è la riorganizzazione del sistema. E la riorganizzazione del sistema non risponde soltanto ai problemi di bilancio, ma anche a una premessa più generale. Trent’anni fa il sistema aveva bisogno di più posti letto, avendo meno possibilità di curare. Nel frattempo molte cose sono cambiate, ma il sistema ha la tendenza a non cambiare, fino a quando non è in crisi. Così oggi ci sono ancora i posti letto che servivano tanti anni fa e nello stesso tempo ci sono anche le nuove tecnologie, i nuovi farmaci e tutto quello che via via si è scoperto. In più sono cambiate anche le persone, che chiedono sempre la migliore risposta possibile, come è ovvio. E nel frattempo l’invecchiamento della popolazione, e l’aumento delle patologie croniche correlato a questo invecchiamento, richiede la creazione di una rete territoriale. È chiaro che così il sistema non regge.
 
Su che direttrici si deve riorganizzare il sistema sanitario?
Bisogna ridisegnare la rete sanitaria come serve oggi: individuare poli di eccellenza, che investono il 20-30% ogni anno in ammodernamento, eliminando o trasformando però molti altri ospedali esistenti. In Calabria noi abbiamo chiesto di eliminare la metà degli ospedali esistenti, e abbiamo ottenuto che si passasse da 28 a 18.
 
Questo per quanto riguarda gli ospedali. E per la rete dell’emergenza-urgenza?
L’emergenza urgenza è quella che suscita anche più allarme “malasanità”.  La gente pensa di poter ricevere in ogni ospedale, 24 ore su 24, l’assistenza più avanzata. Non è così e non può essere così. Ma ognuno può trovare la risposta giusta se si è costruita una buona rete del 118, che sappia valutare le situazioni e decidere, a seconda della gravità, se suggerire di andare dal medico di base, oppure nella struttura territoriale, o nell’ospedale “giusto”, quello dove c’è l’eccellenza per lo specifico problema.
 
Resta il tema più complesso, quello dell’assistenza sul territorio. Come si può intervenire?
Bisogna attivare il distretto, bisogna investire in questa direzione. Finora il distretto è stato sottovalutato e, spesso, è stato utilizzato come valvola di sfogo dell’ospedale: non so dove mettere questo medico? Lo metto nel distretto. Adesso bisogna cambiare.
 
Ma sul territorio operano soprattutto medici di medicina generale, in convenzione con il Ssn.
Se tu hai personale in convenzione, quel personale non è “tuo”, ma collabora con la struttura. Quindi devi avere un coordinamento “tuo”. Pensare che avere molti medici di famiglia, magari anche con qualche incentivo economico, crei “miracolosamente” una rete ottimale non è ragionevole. Ho lavorato in molte aziende, che hanno centinaia di agenti che lavorano a provvigione, ma per gestire questa rete c’è una forte struttura interna, che coordina, supporta, indirizza e stimola. Bisogna migliorare l’organizzazione distrettuale per garantire la reale presa in carico dei pazienti e l’integrazione con i medici di medicina generale finalizzata alla gestione ottimale dei pazienti cronici nel settino assistenziale più appropriato.
Una struttura così può “utilizzare” al meglio i medici di famiglia, possibilmente in associazione, per poter garantire almeno la copertura di 12 ore al giorno per 5 giorni alla settimana. E in questa prospettiva si può anche pensare ad una progressione di carriera per il medico di base, che oggi non ne ha alcuna.
Ma tutto questo, per ora, è stato fatto solo in pochissime realtà. In Emilia Romagna, dove si è intervenuto molto con leggi regionali. In Veneto, dove il dottor Benettollo ha realizzato un Distretto con queste caratteristiche.
 
Torniamo alla sua esperienza in Calabria. Qual è stata la sorpresa più positiva che ha trovato?
La variabilità tra le diverse strutture. Pensi di trovare un disastro generalizzato e invece, quando guardi con più attenzione, trovi strutture ben gestite. Forse non hanno moltissimi soldi, ma sono organizzate.
 
Un confronto tra la sanità italiana e svedese. Le differenze sono così grandi?
Per quanto riguarda il ritmo di cambiamento loro sono più bravi, più veloci. Sanno applicare la teoria secondo la quale ogni trent’anni bisogna cambiare tutto. E poi ci sono più investimenti e dunque più ricerca, ma i medici svedesi non sono più bravi. Anzi, in media, l’assistenza medica e infermieristica in Italia è alla pari con l’assistenza in Svezia, se non meglio.
E.A.
 

14 aprile 2011
© Riproduzione riservata

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