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Quell’ampia “zona grigia” attorno al suicidio assistito

di Antonio Panti

Vi sono molte contraddizioni tra il sentire comune, la politica dei partiti e la realtà della clinica, nei confronti di questa zona grigia o percorso della morte moderna medicalizzata. Al di là di ogni acquisizione scientifica o prassi giuridica spetta alla deontologia riflettere ancora su questo ulteriore mutamento della prassi medica cui la tecnologia moderna costringe a causa degli inevitabili insuccessi dei suoi meravigliosi successi

16 MAR - La Camera ha approvato la legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” che ora passa all’esame del Senato dove, se non sarà affossata dall’opposizione interna alla stessa maggioranza di Governo, non dovrebbe subire stravolgimenti.
 
Il testo è indubbiamente inadeguato rispetto alla realtà in quanto prevede all’art.3, c.2, punto b) che la persona “sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, il che provoca una disparità di trattamento poiché ben pochi potranno usufruire della norma in quanto la massima parte dei possibili richiedenti saranno in estremo stato di sofferenza ma non abbisognano di sostegno vitale, come spesso sono i malati di cancro in fase terminale.
 
La distinzione che appare nell’art. 1 tra “patologia irreversibile con prognosi infausta”“condizione clinica irreversibile” potrebbe, tuttavia, essere riferita a situazioni in cui prevale la sofferenza e manca la previsione della terminalità. Ma se la richiesta può derivare da uno stato di estrema sofferenza psicologica o spirituale allora, in questa zona grigia del morire che talora la medicina moderna provoca, non dovrebbe prevalere la relazione di cura?
 
L’assistenza al morire è parte integrante della relazione di cura, secondo il Codice Deontologico e la l. 219/17. Al contrario, questa legge ha burocratizzato la morte. Sembra, nel leggerne le disposizioni, che la persona debba chiedere un sussidio invece che un disperato aiuto all’interno di un rapporto di umana empatia.
 
Invece la gente sembra aver ben compreso le ragioni della legge, e basti pensare al successo della raccolta delle firme per il referendum bocciato poi dalla Corte. Le esperienze delle situazioni talora terribili provocate dalla medicina moderna prima della morte sono sempre più frequenti e incidono sul costume. Si estende la comprensione che la medicina, come ogni avanzamento scientifico, è senz’altro un bene ma può condurre anche a eventi inattesi e drammatici.
 
Il mondo medico non si è sottratto alla discussione che anzi è stata lunga e complessa. Già nel documento di Terni del 12,06,2009 la FNOMCeO sosteneva che “ai medici spetta il difficile compito di trovare il filo dell’agire posto a garanzia della dignità e della libertà del paziente, delle sue scelte, della sua salute fisica e psichica, del sollievo dalla sofferenza e della sua vita, in una relazione di cura capace di ascoltare e offrire risposte diverse a domande diverse.” E ancora che “su queste delicate e intime materie il legislatore dovrà intervenire formulando un “diritto mite” …. senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico prefigurando trattamenti disponibili e non disponibili nella relazione di cura.”
 
Il testo della l. 219/17 ricalca quello del Codice Deontologico del 2014 e, a seguito della sentenza della Corte del 2019, il Consiglio Nazionale della FNOMCeO ha integrato l’art. 17 del Codice disponendo che, ove sussistano tutti gli elementi sanciti dalla Corte, il comportamento del medico, valutato caso per caso, “comporta la non punibilità dal punto di vista disciplinare”.   
 
Il punto nodale di tutta questa vicenda, profondamente umana prima che clinica o giuridica, è che non appare facilmente comprensibile per il cittadino la differenza tra suicidio assistito e eutanasia, ovviamente nelle stesse condizioni di lucidissima determinazione della persona e di stato clinico. Il medico ha soltanto l’obbligo di prolungare la vita, obbligo ormai desueto anche per la religione, e lascia al sacerdote o al notaio il momento del trapasso?
 
C’è spazio, a mio avviso, per un’ulteriore riflessione. Da tempo la scienza ha compreso che la morte non è Atropo che taglia il filo della vita ma un processo biologico, il che tra l’altro è utile per la donazione.
 
In un recente documento del CNB sullo “Accertamento della morte secondo il criterio cardiocircolatorio e la donazione controllata si parla di donazione dopo la morte “attesa in conseguenza della sospensione dei trattamenti sanitari e di sostegno vitale”, “alla presenza di operatori sanitari specializzati”, attraverso “protocolli a cuore fermo che prevedono un percorso controllato del morire”. Il documento afferma che “tali azioni non hanno finalità terapeutiche o palliative”. Esiste una diversa sensibilità tra Parlamento e CNB?
 
Se leggiamo insieme tutti questi accadimenti, gli esiti intensivologici in stato vegetativo oppure l’esperienza sempre più comune della morte al termine di lunghissimi periodi di sofferenza, nei quali nessuna terapia può modificare la qualità della vita, sembra che prima del processo terminale, la morte, vi sia nella medicina moderna come un percorso della morte, una sorta di zona grigia in cui le più sofisticate tecnologie sono impotenti, anzi talora dannose. E anche le migliori cure palliative, sia pur tentate, possono essere rifiutate e si ha il diritto di farlo.
 
In queste drammatiche situazioni la persona può a qualsiasi costo voler sopravvivere ma può, al contrario, desiderare anzi chiedere a gran voce di por fine alle sofferenze, di prendere davvero armi contro un mare di guai e di invocare aiuto anche perché la morte non sia dolorosa e sofferta.
 
Questa situazione è responsabilità della medicina moderna. Allora la domanda è: quali sono gli obblighi del medico? Quale è il comportamento professionale che unisce empatia, solidarietà, competenza clinica e responsabilità verso il paziente nel rispetto delle sue decisioni? Fermo restando la clausola di coscienza pervista dall’art. 22 del vigente Codice, nell’ambito della relazione di cura e dell’assistenza l’aiuto al morire di quante strade dispone?
 
Infine la legge testé approvata prevede l’obiezione di coscienza come per la 194. Ma in quel caso ha senso: il medico dichiara la sua indisponibilità a praticare l’aborto. In questo caso, invece, il medico, non sapendo se un giorno un suo paziente cronico o oncologico potrebbe chiedergli l’assistenza al suicidio, rifiuterà di curare i malati gravi?
 
Quasi si intravede il tentativo di reperire medici disponibili a assecondare le richieste, una categoria di non obiettori, quando la ratio della legge avrebbe dovuto collocare la questione del suicidio assistito nel solco della l.219/17 cioè della relazione come tempo di cura e inserire all’interno di un “diritto mite” una scelta reciproca di libertà. 
 
Vi sono molte contraddizioni tra il sentire comune, la politica dei partiti e la realtà della clinica, nei confronti di questa zona grigia o percorso della morte moderna medicalizzata. Al di là di ogni acquisizione scientifica o prassi giuridica spetta alla deontologia riflettere ancora su questo ulteriore mutamento della prassi medica cui la tecnologia moderna costringe a causa degli inevitabili insuccessi dei suoi meravigliosi successi.
 
Antonio Panti

16 marzo 2022
© Riproduzione riservata


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