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Orario di lavoro e sanità. Tutte le tappe della direttiva europea mai recepita dall'Italia

di Carlo Palermo e Sergio Costantino

Il richiamo della commissione Ue al Governo italiano per un riallineamento della legislazione nostrana sul rispetto del diritto dei medici e dei sanitari a periodi minimi di riposo giornaliero è una questione che dura da ormai 10 anni. Ecco le tappe di un percorso ancora accidentato.

31 MAG - L'Unione europea (Ue) dispone dal 1993 di standard comuni che disciplinano l'orario di lavoro e dal 2000 tali standard sono applicati a tutti i settori dell'economia. La direttiva sull'orario di lavoro è una pietra miliare dell'Europa sociale poiché assicura una protezione minima a tutti i lavoratori contro orari di lavoro eccessivi e contro il mancato rispetto di periodi minimi di riposo. Essa prevede inoltre diversi meccanismi di flessibilità destinati a tener conto delle circostanze particolari attinenti ai diversi paesi, settori o lavoratori.
 
L’Ue ha inviato all’Italia nell’aprile 2012 una lettera di messa in mora riguardante la non applicazione della direttiva europea sugli orari di lavoro e i tempi di riposo. La missiva dell’Ue faceva riferimento all'esclusione del personale medico e sanitario da alcuni diritti previsti dalla direttiva 88/2003/CE, che disciplina le tutele per tutti i lavoratori, e quindi anche per i dipendenti del SSN.
 
E’ di questi giorni la notizia che la Commissione europea ha trasmesso al Governo italiano un parere motivato nel quadro dei procedimenti di infrazione, chiedendo un riallineamento della legislazione italiana tale da rispettare il diritto dei medici e dei sanitari a periodi minimi di riposo giornaliero e limitare il loro tempo di lavoro massimo settimanale.
 
Ben si comprende come la vicenda assuma un significato più ampio visto che la letteratura scientifica internazionale collega direttamente la deprivazione del riposo e gli orari prolungati di lavoro dei medici ad un netto incremento degli eventi avversi e del rischio clinico per i pazienti. Pertanto, la salvaguardia della salute degli operatori assume nel settore sanitario un’importanza strategica che va ben oltre il mero ambito contrattuale o l’interesse particolare di una categoria professionale, coinvolgendo il tema della sicurezza delle cure e quindi la tutela della salute dei cittadini che si rivolgono alle strutture ospedaliere.
 
Con il D.lgs n.66/2003 il nostro Parlamento aveva recepito la direttiva Ue e quindi le norme che limitano in 48 ore (straordinario compreso) l’orario massimo settimanale di lavoro e fissano il riposo giornaliero in almeno 11 ore.
 
Dopo alcune sentenze di condanna da parte della magistratura delle aziende sanitarie inadempienti, che hanno comportato multe in alcuni casi milionarie, nella legge Finanziaria 2008 (Governo Prodi) è stata introdotta, su suggerimento di alti funzionari regionali e ministeriali, una prima deroga sui riposi per il personale delle aree dirigenziali degli enti e delle aziende del SSN. Pochi mesi dopo (Governo Berlusconi) con la legge 133/2008, oltre alla normativa sul riposo è stata derogata anche quella inerente il limite massimo dell’orario di lavoro settimanale. Così all’art. 41 della legge 133/2008 si stabilisce che “Al personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l'impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell'incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66. La contrattazione collettiva definisce le modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche”.
 
In sintesi, il legislatore italiano ha demandato alla contrattazione collettiva la tutela di un diritto previsto nella legislazione comunitaria, sulla base di una presunta equivalenza tra lo stato giuridico dirigenziale tracciato nella direttiva europea e quello della dirigenza medica e sanitaria italiana.
 
In materia, già nel 2008, esistevano importanti pronunciamenti della Corte di Giustizia Europea che avrebbero dovuto indurre i nostri governanti ad un atteggiamento più prudente.
 
Con la sentenza “Jaeger” del settembre 2003 la Corte aveva stabilito alcuni indirizzi inderogabili:
 
-Il “periodo di riposo” è una nozione di diritto comunitario che non può essere interpretata in funzione delle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri.
 
-Il diritto dei lavoratori al riconoscimento di periodi di riposo non può essere subordinato dagli Stati membri a qualsivoglia condizione, poiché esso deriva direttamente dalle disposizioni della direttiva.
 
-I medici non possono essere esclusi dalle tutele generali neanche quando svolgono i servizi di guardia: “Una siffatta interpretazione s'impone a maggior ragione in quanto si tratta di medici che garantiscono un servizio di guardia nei centri sanitari, dato che i periodi durante i quali la loro opera non è richiesta per far fronte ad urgenze, non si può escludere che gli interessati siano chiamati a intervenire, oltre che per le urgenze più o meno brevi e frequenti, per seguire lo stato dei pazienti posti sotto la loro sorveglianza o per svolgere compiti amministrativi.”
 
Inoltre, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto carattere eccezionale alle deroghe previste dall’art. 17 della direttiva 104/1993/CE (ora artt. 17-19, 88/2003/CE), stabilendo che esse “devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che tali deroghe permettono di proteggere”.
Dopo la deroga il lavoratore ha in ogni caso diritto a periodi equivalenti di riposo compensativo.
Tali periodi devono sottrarre il lavoratore ad ogni obbligo nei confronti del datore, così da consentirgli di “dedicarsi liberamente e senza interruzioni ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell’interessato”.
I periodi equivalenti devono essere costituiti da un numero di ore consecutive corrispondenti alla riduzione del riposo praticata e devono essere collocati immediatamente a ridosso del periodo di lavoro che intendono compensare, “al fine di evitare uno stato di fatica o di sovraccarico del lavoratore dovuti all’accumulo di periodi di lavoro consecutivi”.
 
E’ da sottolineare come anche secondo autorevoli giuslavoristi italiani (Leccese, Allamprese), l’art. 41 comma 13 della Legge 133/2008 contrasti con la disciplina comunitaria ed in un ipotetico giudizio dovrebbe essere disapplicato dal giudice nazionale “se interpretato nel senso di sottrarre dall’applicazione della norma di tutela anche i rapporti di lavoro tra aziende del SSN e prestatori di lavoro che, ancorché formalmente qualificati come dirigenti, non hanno alcun potere di autodeterminazione della durata della propria prestazione”. Infatti, la normativa comunitaria (direttiva 88/2003/CE) consente, all'articolo 17, di derogare all'applicazione delle sue disposizioni, ove si tratti, in particolare, di "dirigenti o altre persone aventi potere di decisione autonomo”. Va, però, rilevato che i medici e i dirigenti sanitari italiani non possono rientrare nell'ambito applicativo dell'articolo 17 della direttiva, in quanto si tratta di professionisti "contrattualizzati", la cui autonomia è limitata a quella medico-curativa, prettamente attinente alla tutela del diritto alla salute, e non all'organizzazione dell'orario di lavoro.

Ma la modifica del D.Lgs 66/2003 cosa ha comportato di fatto? L’errore più grossolano è stato quello di affidare al confronto regionale e alla contrattazione decentrata la tutela di un diritto di livello comunitario. Si è creata una situazione per cui ogni regione ha scelto una propria strada, così in regioni come la Toscana o la Puglia la normativa contrattuale ha recepito la direttiva Ue e garantito le tutele ai lavoratori, mentre in altre, tipo la Lombardia, le tutele sono state di fatto ridotte e i medici sono costretti a lavorare in condizioni di deroga senza che sia tutelato il loro diritto al riposo equivalente.
 
Per questo l’Anaao Assomed, attraverso la Federazione europea dei medici salariati (Fems) ha denunciato la vicenda a Bruxelles, contattando nel 2008 il Commissario Vladimir Spidla e successivamente nel 2010, con la seconda Commissione Barroso, il successore Laszlo Andor. Anche alcuni parlamentari europei italiani si sono interessati alla procedura d’infrazione.
 
Finalmente dopo tanti anni di battaglie la vicenda si avvia verso la dirittura d’arrivo. La Ue ci ha finalmente ascoltati e ha condiviso quanto da noi sostenuto: i dirigenti medici e sanitari in Italia hanno un rapporto di lavoro contrattualizzato basato sugli orari di lavoro e non solo sui risultati, pertanto non possono essere tenuti fuori dalle tutele relative ai riposi e ai tempi massimi di lavoro. Le deroghe non possono riguardare i medici e i sanitari italiani inquadrati come dirigenti del SSN poiché sono a tutti gli effetti lavoratori dipendenti, con l’esclusione dei soli direttori di dipartimento. Infatti, non possono assolutamente rifiutarsi di garantire il servizio di guardia, di entrare in sala operatoria, di svolgere il lavoro di corsia o ambulatoriale.
 
Non resta a questo punto che attendere le azioni del Governo italiano, il cui ‘timing’ per notificare le misure che intende adottare per modificare la legislazione vigente è fissato in due mesi (quindi non oltre il prossimo mese di luglio). In caso di ulteriori inadempienze, il rischio è che il nostro Paese sia deferito alla Corte di Giustizia Europea, le cui opinioni in materia, come già detto, sono ben note.
 
Carlo Palermo
 
Sergio Costantino

31 maggio 2013
© Riproduzione riservata


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