La pandemia ha condizionato la domanda di salute laddove la politica aveva fallito
di Antonio Panti
La pandemia è riuscita a condizionare la domanda laddove la politica sanitaria aveva miseramente fallito. Un ritorno all'autocura, le sbucciature affidate ai rimedi della nonna, il mal di gola ai rimedi da banco, i piccoli malanni alla sopportazione! La pandemia ha posto barriere (la paura del contagio) all'accesso alle prestazioni sanitarie
28 APR - "Solo limitare la gestione professionale della sanità può permettere alla gente di mantenersi in salute" scriveva
Ivan Illich in "Nemesi medica". Ho ritrovato gli appunti di una sua conferenza a Firenze il 4 febbraio 1977; un oratore affascinante che suscitò un'accesa discussione che mi è tornata alla mente in tempo di pandemia.
I fatti hanno dato torto a Illich. Dagli anni 70 a oggi la medicina ha trionfato e infinite sono le conoscenze e le tecnologie che rendono vincente "la gestione professionale della sanità"; la pandemia ha visto l'economia piegarsi alle ragioni della medicina.
In quanto alla "gestione professionale" vien da dire, magari! La tutela della salute è diventata una parte rilevantissima del sistema produttivo e chi amministra la sanità non sembra aver molto desiderio di coinvolgere più che tanto i professionisti.
Tuttavia la pandemia costringe a riflettere sulla cosiddetta "medicalizzazione" della società.
Il direttore del Dipartimento di emergenza di un grande ospedale toscano raccontava come nel suo Pronto Soccorso gli accessi fossero calati da circa 250/300 al giorno a meno di 100; vi era un lieve calo dei codici rossi, spiegabile con la diminuzione dei traumatismi da lavoro e degli incidenti stradali, ma un crollo così consistente era tutto a carico dei codici di minor gravità.
Anche gli ambulatori dei medici generali, seguendo un'indicazione delle autorità sanitarie, sono rimasti praticamente vuoti, quasi anticipando la medicina virtuale. I colleghi raccontano di una forte diminuzione del lavoro tanto da creare preoccupazioni sulla tenuta del livello di salute dei cronici; pochissimi pazienti si recano all'ambulatorio del medico di famiglia per disturbi leggeri.
Perché questa contrazione del ricorso al pronto soccorso e al medico di famiglia quando, inoltre, i servizi specialistici e gli interventi in elezione sono stati pressoché interrotti?
L'eccesso della domanda ha già destato l'attenzione dei medici e degli amministratori, preoccupati per la sostenibilità della spesa. Ed ecco una gran quantità di rimedi dai ticket alle pastoie burocratiche al contingentamento delle prestazioni, tutti presso che falliti; anche le iniziative di educazione sanitaria non hanno avuto grande successo.
La pandemia è riuscita a condizionare la domanda laddove la politica sanitaria aveva miseramente fallito. Un ritorno all'autocura, le sbucciature affidate ai rimedi della nonna, il mal di gola ai rimedi da banco, i piccoli malanni alla sopportazione! La pandemia ha posto barriere (la paura del contagio) all'accesso alle prestazioni sanitarie.
Finora il filtro alla richiesta era tipo accesso a Portofino, aperto a tutti ma troppo costoso, oppure tipo Riccione, aperto a tutti ma troppo affollato; in entrambi i casi qualcuno rinuncia a vantaggio della lista d'attesa. La pandemia ha funzionato come il rifugio alpino, aperto a tutti ma difficile da raggiungersi: molti si accorgono che se ne può fare a meno.
C'è una morale? Il mio professore di patologia medica soleva dire, "state tranquilli tanto vi assiste la vis medicatrix naturae!". Tornando a Illich, l'interpretazione più probabile è che il complesso intreccio di interessi tra tutti gli stakeholders della sanità, aziende chimiche, industrie di dispositivi e di strumenti, amministratori e politici e, infine, associazioni di pazienti e gli stessi medici, abbia contribuito a creare un clima eccessivamente salutista, ageing, di rifiuto di ogni malanno.
D'un tratto la pandemia ha mostrato quanto consumismo vi fosse nell'abituale, eccessivo ricorso alla medicina, solo in parte giustificato perché favorisce la medicina di opportunità.
In conclusione la pandemia ha avuto influenza sul rapporto tra medico e paziente? Non sembri una domanda peregrina. La mancanza di umanità nella morte dei pazienti in terapia intensiva è stato l'aspetto più straziante di questo inaspettato dramma che ha mostrato ancora una volta come l'empatia e il rispetto della dignità dell'uomo siano sempre i valori fondanti della deontologia.
La pandemia ha riaffermato il bisogno di una relazione empatica e libera quale fondamento di ogni possibile cura. Ma vi è un altro lato della questione che nulla ha a che vedere con la relazione di cura. Finora, nonostante le critiche, l'accesso alle cure era assai facilitato. La pandemia lo ha ostacolato mediante provvedimenti di sanità pubblica; la somma degli intralci per evitare nuovi contagi con una mutata organizzazione sanitaria potrebbero ridurre in futuro il ricorso ai servizi medici.
In una sanità ben gestita l'accesso alle cure non dovrebbe essere regolato da ostacoli più o meno nascosti. L'accesso dovrebbe essere organizzato secondo il bisogno del cittadino e ricondotto alla necessità di colloquio e di visita, lasciando alla telemedicina gli adempimenti burocratici. La domanda dovrebbe essere definita soltanto dalla consapevolezza del cittadino. Ammesso che ciò accada sarebbe una conseguenza della pandemia tutta da valutare.
Antonio Panti
28 aprile 2020
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