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Bianco (Fnomceo): “Non serve farsi la guerra, bisogna affrontare le criticità”


04 DIC - Ribaltare le emergenze che si profilano, a partire dalla possibile carenza di medici da qui a qualche anno, in un’occasione di rinnovamento che faccia crescere insieme la quantità e la qualità dei professionisti futuri.
È questa la sfida che vuole lanciare il presidente della Fnomceo, Amedeo Bianco, al termine della II Conferenza nazionale della professione medica, svoltasi a Roma il 2 e 3 dicembre.


Presidente Bianco, perché avete deciso di centrare la Conferenza sul tema della formazione medica?
Siamo partiti da un dato oggettivo, molto visibile, che è una vera e propria emergenza, data da una particolare conformazione della demografia medica che oggi vede oltre115mila professionisti tra i 51 e i 59 anni, dei quali oltre il 90% lavorano per il Ssn. Quando andranno in pensione, nei prossimi anni, ci sarà un grande problema. Per evitarlo occorre riflettere oggi sul percorso formativo di chi vuole diventare medico.

Proprio in questa prospettiva si è deciso di permettere un maggior numero di immatricolazioni nei corsi di laurea in medicina. Non è una soluzione?
Questa scelta, aumentando il numero degli accessi, stressa le attuali strutture formative già nei prossimi anni. E questo mette in luce altre criticità del sistema formativo,dalla selezione delle vocazioni e delle attitudini, ai meccanismi di accesso ai contenuti formativi e alle attività professionalizzanti.
Già nella formazione di base,  le attuali strutture dell’Università ci sembrano insufficienti per garantire quella quota di attività professionalizzante che deve esser fatta. Il problema è ancora più evidente se proiettiamo tutto questo nel passaggio successivo, che è quello della formazione specialistica. Certamente, la situazione non è uguale dappertutto, ma ci sono molte zone grigie.

Quali sono le criticità della formazione specialistica?
Il percorso formativo attuale, per “mettere sul mercato” un medico, impiega dai 10 ai 12 anni. Un percorso formativo così lungo si carica nel tempo anche di altre valenze: nei 5 anni di specializzazione questi “giovani” si trovano ad avere un profilo molto fragile, dal punto di vista sia delle competenze che delle tutele. E non stiamo parlando più di ragazzi, ma di professionisti di 27 o 28 anni, che potranno concludere il loro percorso ben oltre i 30.

Qual è la vostra proposta?
Occorre fare un’altra  considerazione.  Accanto al modello, poco applicato, delle aree formative regionali, sta emergendo un’altra realtà: le Regioni, che hanno dei capitoli di spesa in cessazione originati  dai professionisti che vanno in quiescenza, hanno insieme la necessità di “colmare i vuoti” e risorse a disposizione.  Questo, in un panorama che oltre tutto non fa la giusta offerta di specialisti, crea un cortocircuito, per cui vengono assunti neolaureati, non specializzati, con contratti atipici.
Utilizziamo invece quelle risorse che sono rese disponibili dalle cessazioni e rendiamo trasparente il contributo che gli specializzandi, che sono professionisti e non studenti, danno all’attività assistenziale. Facciamo questo percorso anche all’interno della rete regionale, oltre che nelle aziende miste, dando loro la possibilità di acquisire competenze assistenziali, di prevenzione, di diagnosi, di riabilitazione e di costruirsi posizioni retributive e previdenziali più consone.


Ci sono difficoltà anche in merito alla programmazione del fabbisogno nelle diverse aree di specializzazione. Come pensate di affrontarle?
Occorre rendere il modello dell’offerta formativa più flessibile, e dunque più aderente alle esigenze. Il primo biennio è un tronco comune: chi si iscrive a una specializzazione, perché non potrebbe dopo due anni, in ragione di esigenze manifeste del sistema, cambiare indirizzo, e magari  invece di fare il gastrenterologo, decidere di fare il geriatra?

In alcuni interventi che si sono susseguiti nella Conferenza c’era una critica forte al sistema universitario, che si può riassumere in una accusa: “Li trattenete per oltre 10 anni e quando escono non sono ancora pronti per fare la professione”. Lei cosa dice?
Questo appuntamento voleva essere molto propositivo. Certamente ci sono carenze,  certamente spesso si registra un gap tra le competenze che i nuovi medici dovrebbero avere e quelle che davvero esprimono, questo gap c’è non dappertutto. Ma il nostro obiettivo non è lanciare accuse, è trovare altre soluzioni. L’importante è costruire un metodo, una cultura che non è farsi la guerra, ma trovarsi, incontrarsi e comprendere i fenomeni, per affrontare oggi un’emergenza di quantità e di qualità.


Pensate di chiedere l’abolizione del numero chiuso nelle immatricolazioni?
No, l’abbiamo detto molto chiaro. Anche perché oggi non c’è  numero chiuso ma numero programmato,  e se così non fosse negli ultimi due anni non sarebbe mai cambiato. Il concetto di numero chiuso è negativo, quello di numero programmato è positivo. Perché, e lo dice anche una direttiva europea, non possiamo spendere denaro e disegnare percorsi professionali che poi non abbiano spazio occupazionale. Che senso ha investire risorse della comunità, risorse personali e delle famiglie, per percorsi lunghi che poi non hanno sbocchi? Per questo la programmazione deve essere un percorso molto serio e responsabile. Ed è per questo che abbiamo voluto mettere in evidenza i rischi futuri.

04 dicembre 2010
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