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05 MAGGIO 2024
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Il burn out (non) è colpa tua

di Salvatore Marzolo

01 FEB - Gentile Direttore,
nel nostro lavoro “Benvenuto nella riunione di equipe” è la pancia della balena. Si inizia un discorso che si trasforma immediatamente in un altro. Le voci si accavallano come un battaglione disordinato che esce dalla trincea per scontrarsi con il nemico. “Sono io l’unico che non sta capendo niente qui dentro?”. Il telefono squilla, il magistrato, il citofono, un’urgenza dal Pronto Soccorso… “Qualcuno ha sentito il collega del pronto soccorso? Ma è nostro? non è nostro? e di chi è? ma se poi succede qualcosa? chi se la prende la responsabilità?. Fermati un attimo, come stai? Noi come stiamo?”. Le risposte sono maremoti di emozioni per lo più distruttive, vergogna, colpa, impotenza, solitudine, stanchezza del tipo “non vedo l’ora di andare in pensione”, disaffezione (“tanto non cambia mai niente qui dentro”, “è inutile dottore, lei è giovane, pure noi all’età sua… sa?”). Allora come facciamo a prenderci cura degli altri se siamo così scassati, traumatizzati, spaventati?
Mark Fisher ricorda che se un tempo i lavoratori si rivolgevano ai sindacati in una situazione di crescente stress, oggi sono incoraggiati a rivolgersi ad uno psicoterapeuta personale oppure ad aprirsi uno studio privato. Infatti anche il burn-out degli operatori viene interpretato oggi soltanto in relazione alla chimica individuale del singolo cervello. Il burn-out, insomma, è colpa tua!

In qualche modo una simile privatizzazione del burn-out è diventata un altro elemento in un mondo spoliticizzato, all’interno della diffusa convinzione che non esista alternativa allo stato delle cose. Riprendendo Toni Negri, invece oggi bisognerebbe “vivere e soffrire la sconfitta della verità, della nostra verità. Ogni sotterfugio al riconoscimento che la realtà è cambiata, e con essa la verità, va respinto. Il sangue è sostituito nelle vene”.

Ma se non è colpa mia allora, con quali altri fattori ustionanti sono in contatto quotidianamente? Due risposte parziali riguardano sia il tipo di mandato istituzionale dei DSM, sia il tipo di contesto culturale-organizzativo in cui questo mandato si esplica.

Nel primo caso, sappiamo che attraverso il meccanismo comunicativo viscerale in situazioni angosciose dell’identificazione proiettiva, si rischia inconsapevolmente di diventare una spugna per tutta la rabbia, la depressione, la colpa, la psicosi di utenti e operatori (a tutti i livelli organizzativi); saremo esposti necessariamente al fuoco!

Nel secondo caso invece un contesto culturale-organizzativo caratterizzato da carichi di lavoro eccessivi, dall’estrema burocratizzazione di ogni gesto e iniziativa, da risorse inadeguate e dal sentimento di essere trascurati dai dirigenti, non può che essere un altro fattore ustionante.

Proprio per questo forse la costruzione di un gruppo di supporto tra operatori potrà contribuire a migliorare le prestazioni dell’equipe, creando un ambiente in cui gli individui si sentono apprezzati, rispettati e sostenuti. Insomma che viaggio mirabolante in macchina vuoi fare, se l’indicatore della benzina è in rosso fisso? E allora che fare? Aprire un gruppo di supporto tra operatori, nella pancia in subbuglio della balena? Come potersi permettere contatti emotivi viscerali in un clima bellico e sfiduciato?

Bisogna essere pazienti, delicati. Serve costruire un piccolo gruppo di persone che vogliono prendersi cura di sé per prendersi cura degli altri, coinvolgendo orizzontalmente i nostri colleghi e verticalmente l’organizzazione. Un caffè, una passeggiata, una cena tra colleghi. Insomma un costante sgocciolamento sentito di gentilezza, vicinanza professionale. Prendersi cura della persona nel suo ruolo, cura del contesto.

Quando la fiducia e l’appartenenza iniziano a circolare nel servizio è più facile parlare dei casi clinici problematici, è più soddisfacente badgiare. Se non sono “io” ma siamo anche “noi” a fare da diga, mi sento più sicuro.

Il ruolo di noi giovani medici, forse, è quello di ascoltare e testimoniare i sentimenti difficili. Infatti non vogliamo in alcun modo ritrovarci accartocciati in pratiche stereotipate, nei rifugi da incubo del “si è sempre fatto così”. Non vogliamo bruciarci, ma vogliamo rimanere accesi per poter riscaldare, dare ristoro, agli utenti, ai colleghi.

Recentemente non si fa che parlare della mancanza di personale e di risorse umane. È infatti il personale che manca in quanto l’intimità, i vissuti emotivi traumatici e non, degli operatori spesso non hanno uno spazio adatto e pensato per fluire e reinventarsi. È l’umanità delle risorse a mancare in quanto neutralizzata e paralizzata spesso da fantasmi persecutori, burocrazie vissute come annichilenti, paura e sfiducia nel nuovo. Di sicuro quindi il burn-out non è colpa tua, ma è responsabilità di ognuno prevenirlo.

Salvatore Marzolo, MD
Dirigente medico psichiatra, ASL Caserta

01 febbraio 2024
© Riproduzione riservata

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