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Ospedale-territorio: il cambio di passo ancora non si vede

di Francesco Dentali

16 FEB -

Gentile direttore,
l’ultimo rapporto Sdo del Ministero della Salute ha confermato ancora una volta come i ricoveri in Medicina Interna siano i più numerosi. Su circa 5,5 mln di pazienti ricoverati ben 842 mila affluiscono nei nostri reparti. Questi dati evidenziano due criticità che andrebbero risolte al più presto. In primis occorre trasformare la Medicina Interna da disciplina a ‘bassa’ a ‘media’ intensità di cura, riconoscendo “ufficialmente” l’altissimo e complesso livello assistenziale che viene garantito. Nel corso della pandemia il 70% dei pazienti Covid è stato assistito nelle Unità Operative di Medicina interna, che durante le prime, terribili ondate, si sono trasformate in veri e propri reparti di sub-intensiva. I livelli assistenziali prestati oggi in ospedale nei reparti di medicina interna non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli che venivano prestati più di 30 anni fa. Oggi l'assistenza prestata ha una intensità di cura notevolmente superiore con peso medio dei DRG superiore a 1.30 e in molti casi anche fino a 1.45-1.50.

Questo significa che i pazienti ricoverati in Medicina interna hanno sempre condizioni cliniche gravi e di difficile gestione, con esigenze assistenziali molto complesse, richiedono costante assistenza e competenze specifiche, con ampio utilizzo di tecnologie sofisticate, strumentazioni tecnico-diagnostiche e terapie integrate. Tutto ciò impegna notevolmente il personale sanitario.

Purtroppo, i reparti di Medicina Interna, che garantiscono una elevata intensità di cura, vengono ancora definiti dal Ministero con il codice 26-Medicina generale, con una dotazione di personale e posti letto che è quella di un basso livello di cura. In tal senso, è fondamentale, come abbiamo chiesto in varie occasioni al Ministero, la ri-definizione del codice 26 Medicina Generale come Medicina Interna e la trasformazione della Medicina Interna da disciplina a ‘bassa’ a ‘media intensità di cura’, aggiornando gli standard per il personale sanitario, ancora vincolati dal vecchio DM 109/1988 Donat Cattin.

Ma non c’è solo questo aspetto che andrebbe modificato e che, come Fadoi, chiediamo da tempo. I dati Sdo, infatti, evidenziano come dei circa 842 mila ricoveri ben il 16% (circa 135 mila) siano ripetuti. E in questo senso il problema è quello del legame tra ospedale e territorio. Come abbiamo già avuto modo di denunciare in una nostra survey condotta in 98 strutture è emerso che dalla data di dimissioni indicata dal medico a quella effettiva di uscita passa oltre una settimana nel 26,5% dei casi, da 5 a 7 giorni nel 39,8% dei pazienti, mentre un altro 28,6% dei pazienti sosta dai due ai quattro giorni più del dovuto.

Il motivo? Il 75,5% dei pazienti anziani rimane impropriamente in ospedale perché non ha nessun familiare o badante in grado di assisterli in casa, mentre per il 49% non c’è possibilità di entrare in una Rsa. Il 64,3% protrae il ricovero oltre il necessario perché non ci sono strutture sanitarie intermedie nel territorio mentre il 22,4% ha difficoltà ad attivare l’Adi. Insomma, tutte criticità che fotografano una difficoltà cronica del Ssn a prendersi cura sul territorio dei soggetti più fragili. E il tutto ha un costo per il Ssn di circa un miliardo e mezzo l’anno.

Ora sappiamo che su questo tema il PNRR e il Dm 77 dovrebbero dare un impulso che però ancora tarda a realizzarsi. Sul tema vi è poi la Legge Delega 33/23 sulle Politiche per gli anziani di cui recentemente è stato approvato uno dei primi decreti attuativi. Ma il punto è che al momento queste norme stanno solo su carta.

Le ricette come le Case della Comunità e gli ospedali di Comunità non sono originali, ma al momento di quelle previste dal PNRR ne sono state realizzate appena il 30% e in molti casi, a causa della carenza di personale, non offrono tutti i servizi previsti. Sono modelli che abbiamo già definito e sperimentato ma che spesso non funzionano e lo abbiamo visto per esempio col Covid. Erano presenti da anni anche in alcuni piani sanitari regionali, come quello del Lazio ad esempio. E non mi sembra che lì dove erano presenti le Case della salute vi sia stata una maggiore capacità di fronteggiare per esempio la pandemia. Rafforzare il territorio non vuol dire disseminare l’Italia di altre strutture burocratiche, come le centrali operative territoriali, previste all’interno degli attuali distretti.


Si deve soprattutto mirare a mettere insieme le forze già in campo, che sono molte ma senza una regia. È necessario avere percorsi di assistenza chiari e semplificati, evitando di creare ulteriori percorsi a ostacoli per cittadini e operatori sanitari, proprio in quel “territorio” che dovrebbe agevolare le cure. E poi come al solito si scommette su appropriatezza, riduzione ricoveri e meno accessi al Pronto soccorso. Ma è un film già visto. Per esempio, il collegamento casa-territorio-ospedale-post acuzie-riabilitazione-casa dovrebbe essere ben precisato con regole d’ingaggio strette e rigorose. La regia non la può fare un tecnico-burocrate della Centrale operativa territoriale, ma una équipe di medici e operatori competenti. E poi un ospedale di Comunità a quasi totale gestione infermieristica non può funzionare. In questo Piano, tra l’altro, vi è una riduzione del numero dei medici e una ‘diminutio’ del ruolo del medico: questo non può essere il futuro della sanità. Stesso discorso vale per l’assistenza domiciliare per cui il PNRR ha stanziato ben 3 miliardi di euro ma che ancora non vede quel cambio di passo necessario per disegnare quella sanità di cui il Paese avrebbe tanto bisogno.

Francesco Dentali
Presidente Fadoi



16 febbraio 2024
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