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Salute mentale: perché c’è da preoccuparsi

di Andrea Angelozzi

03 APR -

Gentile Direttore,
ho apprezzato la lettera su Quotidiano Sanità con cui Pietro Pellegrini descrive puntualmente i tanti aspetti problematici nella organizzazione dei Servizi di Salute Mentale in Italia, aspetti che sono rimasti immutati, nonostante ripetute segnalazioni, appelli ed i tanti fatti che avrebbero invece suggerito l’urgenza di interventi in tale ambito.

Ritengo peraltro che proponga una visione troppo ottimistica quando afferma come, nonostante le risorse siano invariate o diminuite, la resilienza, insieme con l’impegno professionale ed etico degli operatori, consenta ancora una sostanziale tenuta del sistema. Credo che una nostra differenza di visione al riguardo tragga forza dalle diverse realtà locali che si stanno vivendo, e dalla eredità che rimane delle difformi risorse del passato. In molte realtà la povertà di risorse esisteva da tempo, e diminuirle ulteriormente mette in grave difficoltà la sopravvivenza dei servizi, nonostante quell’impegno degli operatori che giustamente rivendica.

Inoltre, se guardiamo in maniera più generale a livello nazionale l’andamento dei dati degli ultimi anni, così come ci sono descritti dai vari Report annuali del Servizio Informativo Salute Mentale del Ministero, l’impressione generale è di una crescente difficoltà. E nonostante lo sforzo degli operatori e le risorse personali che i familiari e gli stessi pazienti mettono in campo, riuscendo ad adattarsi o esprimere il meglio perfino nelle condizioni più problematiche, si ha la chiara percezione che, prima o poi, si giungerà ad un qualche drammatico punto di rottura. Segni in questo senso vengono dall’incalzare di notizie di cronaca che vedono coinvolti pazienti psichiatrici, dalla visione di servizi pubblici sempre più deserti di operatori ed a rischio di chiusura, oltre che dalla strisciante tendenza a cancellare 40 anni di storia psichiatrica italiana, con una povertà di idee, oltre che di risorse, che spinge in senso neomanicomiale.

Se vediamo infatti i dati SISM degli ultimi anni troviamo dati preoccupanti. Le Amministrazioni si trincerano sempre sulla soddisfazione di notare un incremento nella utenza, come se fosse un merito dei servizi il fatto che ci siano sempre più cittadini che stanno male e che - nonostante tutto - sono costretti a rivolgersi al servizio pubblico. E raccontano a garanzia della efficienza che i servizi continuano a a fornire molte prestazioni, fra cui abbondanti ricoveri. Ma se entriamo meglio in questi dati emerge la effettiva realtà.

Una prima evidenza riguarda il numero delle strutture attive. Negli ultimi anni è avvenuta infatti una diminuzione delle strutture territoriali e degli SPDC con una contestuale diminuzione dei posti letto. Inutile ricordare poi che questo dato è ancora più preoccupante se si considera che il numero in sé delle strutture territoriale attive nulla ci dice sulla loro effettiva funzionalità né sugli orari di apertura. Contestualmente emerge invece una tendenza neo-istituzionale, con l’aumento delle strutture residenziali e semiresidenziali. I ricoveri aumentano, a testimoniare la fragilità ormai di un modello che voleva essere centrato al di fuori dell’ospedale; e quello che poteva essere un obiettivo di qualità, come la diminuzione della degenza media, non testimonia da tempo cure più rapide ed efficienti, ma solo la fretta indotta dal dover ricoverare più persone in meno posti letto, come ci conferma l’aumento poi delle riammissioni a 7 giorni.

In maniera coerente con le crescenti difficoltà, tanti altri dati assumono un andamento preoccupante. Peggiora la percentuale di pazienti che riescono ad essere visti al Centro di Salute Mentale nel post dimissione sia entro 14 sia entro 30 giorni, a dimostrazione della difficoltà per il territorio di assorbire la richiesta e garantire una possibile continuità assistenziale. E questo viene confermato anche dall’aumento delle riammissioni dei pazienti a 30 giorni, a segnalarci non solo le dimissioni affrettate, ma la scarsa tenuta del territorio nel gestire le situazioni. Questa difficoltà del territorio nel gestire l’ordinario ed ancora meno l’urgente appare coerente con il dato dell’aumento delle richieste di prestazioni psichiatriche al Pronto Soccorso.

Se guardiamo gli ambiti di spesa, vediamo che, a fronte di un % sul fondo sanitario fermo al 3%, di fatto diminuisce in proporzione la spesa per i servizi territoriali, mentre aumenta quella per la parte ospedaliera.

Il tutto mentre psicologi educatori ed OSS aumentano, ma medici ed infermieri diminuiscono.

E se le prestazioni totali e quelle per utente rimangono stabili, si nota una iniziale flessione di quelle terapeutiche, a favore di quelle assistenziali e riabilitative, a segnalare una psichiatria sempre più incapace, nonostante altisonanti progetti, a lavorare sugli esordi e sulla cura, rassegnandosi a trasformare ogni paziente in un lungoassistito da riabilitare. Da qui a costruire una psichiatria che tende a collocare i pazienti in contesti istituzionali il passo è breve.

Questi dati ci suggeriscono una linea di tendenza che è preoccupante, non tanto per le singole voci, quanto per il quadro di insieme che sembra profilarsi. Una psichiatria arroccata in difesa che tradisce il suo modello, che puntava a seguire con continuità i pazienti nel territorio, a favore di un crescente ruolo di un ospedale, comunque, anch’esso ridotto a contenitore occasionale, che ragiona sempre più per interventi e luoghi da lungo assistenza. Considerato che la Legge 180/78 puntava sull’esatto contrario, c’è a mio parere molto di cui preoccuparsi.

Andrea Angelozzi

Psichiatra



03 aprile 2024
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