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Se le Direzioni strategiche di Asl e Ospedali diventano un diretto e comodo capro espiatorio

di Tiziana Frittelli

14 APR - Gentile Direttore,
le scrivo a nome di chi come me e tantissimi altri colleghi, direi la stragrande maggioranza, dedica ed ha dedicato la propria vita, integralmente (vista la esclusività richiesta dal nostro rapporto di lavoro), al Servizio Sanitario Nazionale e, giusto per liberare il campo da chi non sa, unici tra tutti i dirigenti del panorama pubblico, con una remunerazione ferma al 2001 (ed anzi, in molti casi, addirittura ridotta rispetto ad allora, per una incomprensibile scelta di molte regioni), di talché la stessa è spesso inferiore a quella dei nostri Direttori di Dipartimento.
 
E chissà se questa scelta non abbia poi inciso negativamente sulla autorevolezza del nostro ruolo, nonostante la continua esposizione a responsabilità penali, erariali, ammnistrative e civili sottesa a ogni nostra scelta o condotta e nonostante i risultati di un Servizio tra i più apprezzati al mondo.
 
Ciò detto, e anche qui credo di poter parlare a nome della stragrande maggioranza dei colleghi, è questo per noi il lavoro più bello del mondo. In questi giorni tante sono state le accuse alle Direzioni strategiche, quasi un senso di odio, di non tanto velato rancore - soprattutto da parte dei sindacati medici - che non può non farci riflettere, anche perché i giudizi hanno spesso travalicato il singolo problema dell’approvvigionamento dei DPI che, dovunque, tutte le direzioni, ancorché con grandi oggettive difficoltà, hanno cercato di gestire, in un Paese in cui la pandemia è scoppiata con virulenza inaudita. 
 
Da ultimo, nella intervista a questo giornale del dottor Palermo (con il quale, peraltro, concordo su moltissimi dei giudizi espressi: dal potenziamento del territorio, al fondo su base indennitaria per gli operatori vittime della pandemia, fino al fenomeno intollerabile dei camici grigi), colpisce in primis il giudizio negativo generalizzato e precostituito verso le direzioni strategiche, che non avrebbero “pensato di implementare i piani pandemici”.
 
Non so a quale Servizio Sanitario si faccia riferimento, visto che, in meno di 20 giorni, la sanità, nelle varie regioni, questi piani pandemici, non solo li ha elaborati, ma li ha anche serratamente attuati. Basta guardare i dati, basta semplicemente prendere atto di quanto siano stati incrementati i posti letto destinati al covid, di come siano stati creati ad hoc posti letto di terapia intensiva, di come siano state duplicate le reti tempo-dipendenti, di come siano stati separati gli accessi in Pronto soccorso, di come le regioni abbiano dovuto creare reti, individuando strutture covid e no-covid, organizzare monitoraggi sui territori, presso i domicili delle persone, allargati non solo alle strutture sanitarie, ma anche a quelle comunità che sono state fonte di grande contagio.
 
E chiunque abbia conoscenza anche minima di organizzazione sanitaria sa di quanta professionalità e dedizione ci sia bisogno, da parte delle tecno-strutture regionali e delle aziende, per realizzare tutto questo, in tempi così rapidi, in contesti complessi quali la sanità. Nel Lazio, dove opero, abbiamo assunto 1.473 unità di personale sanitario nel giro di poche settimane; cercato e comprato, ove possibile, DPI e attrezzature elettromedicali, ben oltre le consegne della Protezione civile; organizzato reti dalla fase acuta a quella riabilitativa, individuate dimore per chi fosse in via di guarigione o per chi dovesse essere isolato.
 
Anche componenti delle direzioni strategiche si sono infettate; per un mio collega laziale, positivo, i dipendenti hanno preparato un grande striscione di auguri, perché, come tutti noi, lo hanno visto sempre sul campo. Peraltro, ci siamo mossi in un contesto che ha evidenziato le carenze strutturali delle quali parliamo da anni. Innanzi tutto la debolezza del territorio. Ma, forse, l’aspetto più critico è stato proprio il rapporto medici infermieri del tutto capovolto rispetto al resto d’Europa. Nei mesi scorsi, prima dello scoppio della emergenza, ci siamo a lungo profusi in astratte discussioni circa il perimetro di azione delle professioni, con scontri che sono arrivati alle denunce penali e alle espulsioni dagli ordini.
 
Non avremmo potuto forse, più concretamente, discutere di più e meglio di un nuovo modello operativo che, partendo dalla definizione degli ordinamenti, riuscisse a definire nuove linee di azione proprio sulla filiera del territorio, contando sulla indubbia crescita professionale delle professioni sanitarie?
 
Non avremmo potuto, anzi dovuto, più in generale, meglio ragionare su un sistematico e proattivo coinvolgimento strutturale delle professioni sanitarie nella presa in carico del paziente, all’interno e all’esterno dell’ospedale, dando, altresì, una decisa e coraggiosa spinta verso modelli gestionali a responsabilità infermieristica, valorizzando, pertanto, ruolo, competenze e abilità di queste indispensabili figure professionali, della cui importanza ci stiamo pienamente rendendo conto proprio in questo drammatico periodo emergenziale?
 
E non avremmo forse potuto organizzare gli ospedali in maniera più trasversale, senza focalizzarci su una organizzazione per strutture, immota dal CCNL del 2000, ribadita nell’ultima tornata contrattuale, disegnate come silos, che abbiamo dovuto stravolgere, con tempi contingentati, proprio in questa occasione emergenziale, per creare team multidisciplinari all’altezza di una patologia terribile che coinvolge tante professionalità?
 
E se, quindi, la fonte di questo grande disagio organizzativo fosse proprio l’impostazione di quel contratto e, ancor più, la stessa configurazione di azienda, licenziata dalla riforma del ’92?
 
Soffermiamoci sulla nozione di “azienda”. La nozione iniziale, quella di strutture con capacità di governo autonome dai Comitati di gestione, sembrava allora il modo di transitare il Servizio sanitario al di fuori delle pressioni della politica, alla ricerca di una classe manageriale preparata e autonoma. Il CCNL del 2000, in linea con questa impostazione, ha, a sua volta, individuato la figura di responsabili di strutture come mini manager, responsabili delle risorse assegnate. Sono stati gli anni del passaggio alla contabilità economico-patrimoniale, superando le logiche riduttive della contabilità meramente finanziaria, alla contabilità analitica, che ha accompagnato il primo sviluppo del controllo di gestione, e alla valutazione, in sede di budget, del rapporto tra costi e ricavi per le singole strutture.
 
E’ lo stesso CCNL, sottoscritto dalle OOSS, che prescrive questa tipologia di obiettivi. Poi nel 2001 il cambiamento del sistema di finanziamento della sanità, su base regionale, e nel 2005 la legislazione in materia di piani di rientro regionali. Da allora in poi la sanità ha dovuto fare i conti con una difficile sostenibilità, mentre cambiava, non solo il quadro epidemiologico e demografico, ma anche le aspettative e le esigenze della popolazione. In questo contesto, le direzioni hanno dovuto assicurare equilibrio economico al sistema e, in linea con quanto disegnato dal CCNL della dirigenza medica, “stressare” i responsabili di struttura con conti, margini, ricavi, come se davvero si trattasse di siti produttivi.
 
Vi devo confessare che non mi piace essere chiamata manager e non perché non servano capacità manageriali per gestire aziende con bilanci sempre più pesanti, vista la tendenza agli accorpamenti, ma perché ritengo che la nostra funzione vada molto al di là della definizione di manager. Noi lavoriamo e “serviamo” un servizio pubblico (mi piacerebbe, semmai, essere chiamata public servant), dove l’equilibrio economico non è il fine, ma lo strumento essenziale per garantire che neppure un euro venga stornato dalle cure della gente, specie quella più fragile. E, già che ci siamo, ricordo che la legge del ’92, così come successivamente modificata, prevede due organi aziendali, oltre al direttore generale: il collegio dei revisori e il collegio di direzione, composto dai direttori di dipartimento.
 
Mi è capitato raramente che un direttore di dipartimento abbandonasse l’ottica gestionale rivolta prevalentemente alla “propria” struttura per dedicarsi a tempo pieno alla organizzazione dipartimentale, di talché, spesso, tra incombenze della propria struttura e l’attività libero professionale intramurale, il tempo dedicato all’organizzazione dipartimentale diventa davvero limitato, con fulgide eccezioni.
 
E così le direzioni strategiche, verificata l’inutilità di stressare i clinici responsabili di struttura con obiettivi organizzativi che, comunque, non potevano che riguardare il ristretto perimetro del loro reparto, hanno creato specifiche gestioni operative (c.d. operation management), in capo a team multidisciplinari ad hoc deputati, che si fanno carico dell’organizzazione delle grandi piattaforme, lasciando ai clinici l’organizzazione clinico-operativa delle strutture.
 
Ma sicuramente - e questo è doveroso ammetterlo - hanno ascoltato i loro professionisti meno di quanto avrebbero dovuto, altrimenti questo astio non si spiegherebbe. Il risultato di questi anni di lavoro pancia a terra è stata, comunque, la tensione continua verso il risanamento della sanità e sicuramente una classe dirigente più autonoma dalla politica e molto più preparata, che, a fronte di cambiamenti organizzativi imponenti, quali gli accorpamenti e la ridefinizione di posti letto, ha dovuto elaborare strategie, nel quadro di una normativa ferma agli anni ’90, con il solo inciso del decreto legge Balduzzi, e con un impianto organizzativo fermo al CCNL della dirigenza del 2000.
 
Oggi, come visto, siamo diretto e comodo capro espiatorio a fronte di un sistema che sicuramente ha criticità, a cominciare dalla complessiva sostenibilità, ma che, non dimentichiamolo mai, è tra i migliori al mondo, con l’orgoglio di prestare cure a tutti, a prescindere dalla capacità di reddito, pur essendo fiscalmente sostenuto - e questa sì che è una vergogna - solo dal 40% della popolazione italiana, visto l’altissimo livello di evasione.
 
Quando, giustamente, chiediamo un maggiore finanziamento per la sanità, dobbiamo sempre ricordarci di declinare questa richiesta contestualmente pretendendo, da parte di tutti gli stakeholder, anche la fine dell’evasione fiscale, presupposto per una più equa distribuzione sociale. Durante questa emergenza moltissimi sono stati gli sbagli commessi, a tutti i livelli, con grandi responsabilità anche verso i MMG.
 
Ma, anche qui, forse è arrivato il momento di capire, una volta per tutte, cosa significhi rapporto convenzionato e quali siano i reali ambiti di proattiva integrazione con le strutture del servizio sanitario, le quali, peraltro, è bene ricordarlo, dopo la legge Gelli, rispondono della loro responsabilità professionale. Ribadisco che puntare adesso il dito serve poco, soprattutto se guardiamo con gli occhi di “oggi” fenomeni misconosciuti fino a “ieri”. Serve una riforma del sistema e dovremo imparare dagli errori di tutti.

Ma, soprattutto, serve una grande alleanza e una coscienza critica di tutti gli attori, nessuno escluso, per guardare al futuro, imparando dal presente e lasciando in parte le logiche del passato. Ricominciamo da qui. Facciamo in modo che la necessità diventi virtù, in un Paese che ne ha profondamente bisogno.  
 
Tiziana Frittelli
Presidente Federsanità

14 aprile 2020
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