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11 LUGLIO 2021
I Forum di QS. Quale ospedale per l’Italia? Brandi: “L’ospedale ‘antiminimalista’ che vogliamo”

È ora che dell’ospedale che vogliamo ne discutano in primis coloro che ci lavorano, curando le persone (gli onesti blu collar che hanno sempre tenuto in piedi la baracca anche nei momenti più bui), lasciando ad ancillarità le suggestioni di maitre à penser lontani dalla cura delle persone se non dalla medicina tout court

Sto leggendo con interesse lo svilupparsi di questo Forum sull’ Ospedale che Cavicchi e Fassari hanno voluto aprire con benemerita tempestività non appena, al primo tintinnio di monete del PNRR, un nugolo di “aziendalisti” di antica lena si è lanciato a dirci come vanno spesi i soldi. Dal dibattito sono emersi molti punti di piena condivisione.
 
Il focus è sull’ospedale “antiminimalista” che vogliamo e che secondo tutti noi è necessario, ma per fare ciò al meglio penso che si debba guardare a tutti gli snodi critici della sanità italiana, che interagiscono vicendevolmente. Ed in accordo con l’auspicio di Cavicchi, è ora che dell’ospedale che vogliamo ne discutano in primis coloro che ci lavorano, curando le persone (gli onesti blu collar che hanno sempre tenuto in piedi la baracca anche nei momenti più bui), lasciando ad ancillarità le suggestioni di maitre à penser lontani dalla cura delle persone se non dalla medicina tout court.
 
Così, mi azzardo a dire qualcosa sperando di poter contribuire fattivamente avendo esplorato quasi tutti gli aspetti della medicina occupandomi di clinica, ricerca e formazione: attualmente professore di oncologia medica all’IRCCS, AOU di Bologna-Policlinico Sant’Orsola; Direttore della Scuola di Specializzazione in Oncologia Medica; Direttore di Master in Cure Palliative; Fellow del Collegium Internazionale Ramazzini; Fondatore di Associazioni scientifiche e di pazienti con tumori del fegato (GICO ed APIC); ma in passato con breve esperienza come medico ospedaliero nonché titolare del Diploma di MMG.
 
Toccherò alcuni punti che ritengo necessario sottolineare, cercando di partire dai problemi e non dalle soluzioni (più o meno presunte).
 
1. Come si interfaccia la persona che ha un problema di sanità o di salute con il variegato universo del mondo sanitario italiano?
Credo che nessuno possa negare che il sentiment più diffuso ( con le dovute eccezioni) sia questo: ” ho provato a riferirmi al mio medico di famiglia ma senza risultato...”
Ciò, ma non solo ciò, induce a vedere l’ospedale come UNICA potenziale ancora di salvezza (“..almeno ti prendono in carico”…). che fa da supplente a tutte le carenze del sistema a partire dal cosiddetto “territorio” (per molti stakeholders una semplice entità geografica). Nella filiera della continuità assistenziale, questa problematica della MMG va affrontata. E’ mia opinione che se si vuol rimanere libero professionisti non si può più pensare ad un introito garantito da norma specifica.
 
In Francia a mia conoscenza (almeno fino a poco tempo fa), la gestione era la seguente: il paziente può andare da qualunque MMG, paga direttamente la visita col POS ed è rimborsato entro 48 ore dallo stato centrale. L’alternativa che si prospetta è il rapporto di dipendenza diretto in una formula para-ospedaliera all’interno delle cd Case della Salute ed OSCO che si vuol costruire (1288+381 entro il 2025) a tutti i costi con il PNRR e che nessuno sa
cosa diversamente debbano prendersi in carico. E chiaro, peraltro, che questa rinnovata figura del MMG, giustamente chieda di essere sgravata di una parte dell’incomprensibile carico burocratico che gli si è attribuito d’ufficio e quasi con spirito punitivo.
 
2. Dove si colloca l’Ospedale antiminimalista in questo scenario?
E’ stato ben detto (Cavicchi, Cognetti, Quici) che essendo, da molto tempo, degenza ospedaliera e cura non più sovrapponibili si crea per forza una filiera di cura che ha lo snodo centrale organizzativo nell’Ospedale e che, esso, deve approntare un modello dipartimentale integrato partendo dai problemi. L’esempio dell’oncologia può aiutarci a capire l’impatto e le potenzialità di questo modello essendo la problematica oncologica quella a maggior grado di complessità e con costi diretti e sociali più elevati.
 
Infatti la presa in carico del paziente oncologico in ospedale (sia come DO o DH) è solo una parte del fenomeno. Il paziente oncologico è l’esempio perfetto del passaggio avanti ed indietro fra ospedale e territorio, tra momenti ad alta/od altissima intensità di diagnostica e cura a momenti a minor intensità. Vi sono esempi di integrazione già fattuali ed altre fattibili.
 
• Fattuali. Parte fondamentale nella gestione della malattia oncologica attiva risiede anche la rete delle cure palliative domiciliari che ottiene risultati tanto migliori quanto più precocemente attivata. Questo esempio dell’attivazione precoce delle cure palliative domiciliari, già attivo nei centri più lungimiranti, dimostra che la gestione del paziente in modalità overlapping fra specialista ospedaliero e medico del territorio sia perfettamente fattibile e semplicemente migliorabile con qualche strumento specifico di telemedicina.
 
• Fattibili. Altro esempio è quello del follow-up. Il paziente oncologico senza più evidenza di malattia (usualmente dopo chirurgia) inizia un periodo di controlli (5 o più anni) atti sia ad identificare precocemente recidive o nuovi tumori che a fronteggiare potenziali tossicità tardive. Al contrario delle cure palliative questo è un esempio che, sebbene potenzialmente molto importante per la gestione complessiva del problema cancro, non ha ancora avuto alcuna implementazione.
 
Ed è un vero peccato poiché una modalità innovativa, integrata fra ospedale e territorio permetterebbe lo scarico delle UO di Oncologia ma soprattutto il
risparmio di una significativa parte del costo sociale del cancro, che è circa 5 volte superiore al costo diretto dei trattamenti (30 vs 7 MLD circa). Il costo
sociale del tumore è la somma delle spese sostenute dal Servizio Sanitario e quelle direttamente affrontate dai pazienti e dai loro familiari, nonché i costi che derivano dall’impatto della patologia sui diversi ambiti lavorativi, sociali e psicologici. Parte del costo sociale è anche dovuto alla perdita di chance
economiche e alle giornate lavorative perse (sia per paziente che per accompagnatori).
 
Si faccia il calcolo di circa 2/3 ctr annui moltiplicato per gli oltre 4 mln di italiani con problema cancro (attivo o superato) nonchè gli oltre 2,4 milioni di persone che vivono dopo diagnosi di tumore da più di >5 anni con incremento costante del 3% annuo, e si avrà un’idea dell’impatto economico/sociale della questione. Non è definito il peso del FU sul complessivo costo sociale del cancro ma è presumibile un costo attuale di almeno 4-5 mld (per suddetta perdita di reddito da time consuming. Un FU organizzato in strutture dedicate extraospedale (per esempio in case della salute od anche in strutture private convenzionate ma dedicate a ciò) in maniera da poter fare tutto in unico giorno (es TC e laboratorio al mattino e visita oncologica il pomeriggio) consentirebbe non solo l’ abbattimento del costo sociale del cancro (almeno legato al FU), ma anche acquisizione dopo 5 anni di centinaia di migliaia di dati prospettici su tutti i tipi di neoplasie (indispensabili per definire i nuovi standard nazionali ed anche internazionali) riducendo nel contempo il carico assistenziale su UO di Oncologia.
Questo è risparmio, è ricerca, è innovazione gestionale.
 
• Un ulteriore esempio di integrazione ospedale territorio potenzialmente fattibile da subito è quello di poter somministrare certe chemioterapie a domicilio con il solo infermiere. Ad es al Gustave Roussy di Parigi, si somministrano già una discreta tipologia di chemio infusionali a domicilio (incluse tutte le immunoterapie).
 
• Approfittando dell’esperienza fatta e fattibile in oncologia si potrebbe/dovrebbe pertanto ragionare come se fossimo in uno studio clinico, costruendo sperimentazioni pilota di percorsi integrati di gestione necessariamente disegnati e coordinati dalle figure cliniche che gestendo la parte più complessa della patologia ne conoscono tutta la problematica. Questo è un modello elastico, direi a geometria variabile, applicabile ad ogni macrodisciplina clinica e che supera la contrapposizione fra ospedale e territorio, che è stato il portato peggiore di una organizzazione sanitaria che è partita dalle strutture piuttosto che dai problemi.
 
Peraltro sembra con Il PNRR si voglia persistere nell’errore: si vogliono costruire Case della Salute ed OSCO in gran numero ma senza avere la minima idea di cosa metterci dentro (forse i MMG) e/o disegnando modelli di cura che , in perfetto stile task–shifting, prevedano la possibilità di nominarenon medici a capo di UO ospedaliere o delle Case della Salute, lasciando al medico il ruolo di consultant, di “professionista a chiamata in caso di problemi da risolvere”. In altri termini si vuol affidare la responsabilità clinica ad un medico e quella organizzativa a un non medico. Al momento tutto ciò sembra una buona “resilienza” per l’edilizia piuttosto che per la sanità. Ancora una volta si ri-parte dalle strutture e non dai problemi.
 
3. Altro punto fondamentale: qual è il peso della componente clinica nella gestione dell’Ospedale?
E’ stato già commentato da molti , poiché questo è il vero punto chiave su cui far leva se si vuole cambiare l’ospedale. Anche se molti maitre à penser vogliono farcelo dimenticare noi non dobbiamo mai scordare che senza medico clinico non si fa la medicina! Non vi è management, econometria sanitaria, task shifting , IA, Big Data che possa surrogare il nostro ruolo. Ci hanno progressivamente convinti a perdere peso specifico ( senza peraltro poi nulla in cambio) e ci rappresenta bene la favola della rana che viene messa in pentola … e comincia col dire “bè l’acqua è appena tiepida” e poi si ritrova bollita a fuoco lento.
 
Che si sia già sul carrello dei bolliti lo testimonia la insoddisfazione crescente, e direi ormai generalizzata del personale sanitario (ospedaliero nello specifico), sulla condizione dello stato lavorativo che si basa su tre punti: assenza di peso sostanziale sulle decisioni che ci riguardano; modalità di lavoro e personale insufficiente; remunerazione inadeguata. In altri termini la tutela e la valorizzazione del lavoro del sanitario.
 
Riguardo il primo punto, Cavicchi ha ben detto dell’obsolescenza del “consiglio dei sanitari” (una sorta di consiglio della corona fine ‘700), retaggio del ‘68 nel cuore delle ASL. E con il processo di fusione delle ASL (negli ultimi anni si è passati da circa 200 a meno di 150 ASL e da 100 a 75 AO con contemporanea riduzione di circa il 25% dei posti letto) nell’ottica che “big is better” cioè che il gigantismo sia la soluzione migliore, la situazione sembra tutt’altro che migliorata anche per la componente sanitaria. Si sta evidenziando un indebolimento della capacità gestionale perché il gigantismo (aziende con >5000 dipendenti ed oltre) necessita di maggior capacità manageriale: viceversa avanza il rischio di un middle-management debole, anche perché continua ad ignorare il reale contributo della componente clinica. L’accentramento delle funzioni può peraltro portare a riduzione dell’efficienza (non solo delle reti cliniche ma perfino degli stessi servizi amministrativi).
 
Alla prova dei fatti, i guadagni ottenibili da un diverso cost-management per azioni economie di scala e intelligent network sono risultati sempre inferiori a quelli preventivati ed in gran parte solo dovuti a tagli della forza lavoro. Nell’ esperienza anglosassone l’unico punto potenzialmente utile dalle aggregazioni, è quello di poter ottenere maggior penetrazione nel mercato della salute per azione di market leverage. Peccato che ciò non abbia senso nel sistema universalistico italiano che, ovviamente, non è basato sul mercato della domanda e della offerta, a meno che non sia volutamente ricercata verso terzi paganti (fondi, mutue, assicurazioni) in un imperituro disegno di privatizzazione strisciante.
 
Abbiamo esempi tragici di ciò che può accadere quando si ignorano e si scavalcano le decisioni di chi conosce meglio il problema medico: pandemia docet! Un caso indice è quello del Pronto Soccorso di Alzano chiuso il 23 febbraio 2020 dal direttore del PS sulla base degli evidenti dati clinici di contagio e riaperto d’imperio (senza neppure sanificazione) dal management amministrativo. Questa scelta dissennata ha favorito il dilagare della pandemia rendendo quella vallata la più colpita d’Europa, e qualche giorno fa ha indotto la magistratura al rinvio a giudizio per procurata epidemia.
 
Questo è un esempio estremo, ma contraddizioni simili accadono con frequenza maggiore di ciò che si pensa e tutto ciò dovrebbe almeno rimandare gli enti politici decisionali a porsi un semplice dilemma: chi è opportuno debba avere il potere di scelta su questioni cliniche?
 
Un secondo punto riguarda la modalità di lavoro e la carenza cronica di personale. Fassari ha già illustrato i numeri bruti dei tagli: negli ultimi 10 anni chiusi il 15% degli ospedali, perso il 6.5% del personale sanitario e, complessivamente, oltre 43.000 posti letto. La sanità è divenuta, in generale, un posto scomodo per pazienti e personale. Corollario obbligato a ciò è l’incrementale sovraccarico burocratico soprattutto a carico del medico: quello che prima veniva espletato da personale amministrativo viene informatizzato ( o meglio semi-informatizzato, data la frequente vetustà delle scelte informatiche con certi passaggi degni del MS-DOS) e semplicemente scaricato ad isorisorse (neologismo urticante quant’altri mai) sulla attività clinica del clinico che si vede defraudato del suo rapporto col paziente: ormai almeno il 70 % del tempo di visita è assorbito da un insieme di pratiche che esulano dal rapporto medico-paziente.
 
Se questo è un po’ meno spiccato nei Policlinici Universitari, per la collaborazione degli specializzandi, diventa devastante negli ospedali extrauniversitari con tutte le conseguenze negative che comporta. Il combinato di tempi di visita contingentati e sovraccarico di burocrazia crea frequentemente una condizione tayloristica da Tempi Moderni di chapliniana memoria.
 
Penso che questa pratica sia potenzialmente pericolosa per il paziente, per il medico e per la struttura stessa e la si debba includere fra le categorie di rischio clinico. Certe attività vanno sgravate al medico ed attribuite a personale meno specializzato ( tra l’altro con costi inferiori).
 
Grazie alla lezione della pandemia che ha messo a nudo tutte le carenze del SS, e dopo gli enormi sacrifici di medici ed infermieri che hanno permesso di tenere in piedi un sistema pubblico ridotto all’osso, è stato dato per implicito da tutti che col Recovery Fund si sanassero almeno le storture più evidenti in termini di buchi di organico. Quando ci si renderà conto che tutto ciò non solo non è previsto ma esplicitamente interdetto nel PNRR (dedicato a misure antisismiche, acquisto di grandi attrezzature e digitalizzazione - tra l’altro incredibilmente solo per gli iRCCS- vedi Palumbo) penso che non sarà preso molto bene.
 
Un corollario, invece non obbligato e presente solo in alcune regioni, è quello della separazione gestionale della presa in carico del paziente fra medico ed infermiere. Ciò porta ad esiti francamente disdicevoli tra cui l’interdizione (emanato dalla neocreata dirigenza infermieristica) che l’infermiere vada in visita assieme al medico. Due cartelle separate, la terapia reperibile esclusivamente in quella infermieristica. A qualcuno non è certo mancata la fantasia …e il tutto riferito al maggior interesse del paziente…!
 
Un terzo punto riguarda la remunerazione: nel dibattito si è già parlato dell’ assoluto scollamento fra quanto si dà in termini di lavoro e come se ne venga economicamente ripagati.
Più in generale si vuole continuare ad ignorare che ormai si è, tutti, in un’ottica di mercato. E la regola del mercato ha il suo architrave nella legge di domanda ed offerta. A fronte di una modalità lavorativa poco attraente e in cui il burn out non è certo più un evento sporadico, un livello remunerativo inadeguato ti spinge fuori mercato. Questo è ben descritto per medici con lunga carriera che lasciano sempre più frequentemente il pubblico, ma è ancora poco conosciuto per gli specializzandi. Il decreto Calabria (varato nell’emergenza Covid) sta depauperando le Scuole di Specialità (6 su 8 del quinto anno di corso della mia scuola se ne sono andati con questo decreto, nell’ottica di ottenere poi una assunzione che a quanto pare rimarrà una speranza).
 
E’ un problema maggiore perché sono il futuro e già oggi non riusciamo più a trattenere i migliori che dopo un periodo all’estero sono corteggiati dai centri in cui si trovano con contratti economicamente e mansionalmente vantaggiosi. Diversamente dai loro colleghi di 15 o 10 anni fa, gli specializzandi di oggi non sono più disposti ad aspettare appesi ad un filo di precariato, e trovano facilmente offerte più che adeguate: lo stato italiano continuerà a formarli (ad alto costo) e poi a regalarli ad altri paesi.
 
4. L’ultimo aspetto riguarda il rapporto pubblico-privato.
Il crack della sanità lombarda ha incontrovertibilmente mostrato l’incapacità di un sistema ampiamente squilibrato a favore del privato di fronteggiare un stress test come una pandemia. Fino alla pandemia ogni regione aveva un sua propria via alla privatizzazione ed in assenza di coraggio politico di privatizzare in maniera diretta si è proceduto in maniera più o meno strisciante, ma senza mai un vera opposizione a portare il sistema sanitario progressivamente nelle mani del privato.
 
Anche per una regione meno esposta come la ER l’andamento non è stato dissimile: dal 2000 al 2017 i posti letti nel pubblico sono calati da
17. 000 a 13.000 circa mentre sono passati da 5200 a 5000 circa nel privato; nello stesso periodo i ricoveri ordinari nel pubblico sono calati in maniera costante da 562.000 a 486.000 circa, mentre nel privato convenzionato si è passati da 90.000 a 95.000 circa con oscillazioni importanti nel periodo in questione e con ripida impennata nell’ultimo anno.
 
Fino ad almeno il 2018 la politica preferita è stata anche quella di scaricare una grossa quota di spesa sanitaria pubblica riversandola brutalmente sui cittadini. Ciò è testimoniato ad es dall’aumento della spesa privata in cui l’Italia, fanalino di coda fra i paesi G7 per spesa pubblica in sanità, è seconda per spesa out of pocket (almeno 35 MLD di cui ben 30 a totale carico delle famiglie, senza alcuna intermediazione di fondi o assicurazioni).
 
Inoltre Il finanziamento generoso da parte del pubblico di strutture private convenzionate tramite la stessa quota di DRG garantite al servizio pubblico, (il quale però con quella cifra paga anche tutti servizi- pronto soccorso ed altre strutture intermedie- che il privato si guarda bene dal richiedere) regala almeno 2 miliardi di euro/anno alla ospitalità privata.
 
Con il favore al welfare privato aziendale con il sistema multipilastro, lo stato ha da un lato incentivato il privato attraverso mutue e convenzioni con aziende e dall’altro ha indebolito il pubblico sotto-finanziandolo per molti anni. Si sta creando un sistema di welfare on demand (cioè il tipico modello americano) garantendo meno soldi alla Sanità pubblica e più incentivi al welfare aziendale con la creazione non tanto di mutue/assicurazioni integrative (che garantiscono ciò che lo stato non dà) bensì sostitutive (con un nomenclatore identico a quello dei LEA). Tale dinamica sta conducendo ad una crescente pressione delle fasce più abbienti della popolazione per sganciarsi dal meccanismo solidaristico del SSN fondato sulla progressività della tassazione per auto-garantirsi corsie preferenziali nell’accesso alle cure, pagandole direttamente.
 
La domanda fondamentale a questo punto è la seguente: dopo la lezione della pandemia PNRR e dintorni sapranno resistere alle fascinazioni delle lobby del privato, tentando di salvare il Servizio sanitario pubblico investendo strutturalmente su di esso, sia economicamente che normativamente?
PS
One Health or not One Health? Siamo un pò al di fuori dalla problematica specifica dell’Ospedale, ma in piena problematica salute vista come prevenzione primaria, che spesso va condotta con politiche ampie che precedono il momento della cura. E’ l’esempio delle tubature dell’acqua in amianto diffuse in tutta Italia (oltre 60.000 KM; >5000 in ER) che rilasciano un numero di fibre incrementale di anno in anno ( oltre 20000 fibre per litro di acqua: dati ARPA del 2016 acquedotti di Bologna).

 
Contrariamente ai tentativi di sminuire il problema, questo sembra un problema serio di salute pubblica che non fa rumore poiché sviluppa la sua azione nell’arco di decenni, ma le fibre introdotte con l’acqua sono di sicuro assorbite ed una parte poi si sposta in vari distretti (vedi Cook PM et al.; SCIENCE 1979; vol 204,195-8). Il parlamento europeo (contrariamente all’OMS) in una risoluzione del 14 marzo 2013 esortava a valutare accuratamente il problema e a trovare soluzioni. La Polonia già 7 anni fa ha ottenuto finanziamenti comunitari di oltre 10 MLD per sostituire la sua rete idrica in amianto con tubi in acciaio.
 
Si poteva ritenere che l’Italia, con una rete idrica siffatta e che perde il 40% della portata, dedicasse una quota adeguata del PNRR ( che ha la sua pietra angolare nella transizione ecologica) alla definitiva soluzione di questo problema di salute ed economico. Al momento, la quota economica dedicata alla rete idrica (800 mln) è sufficiente per qualche rattoppo.
Sarà per la prossima transizione ecologica….!
 
Prof. Giovanni Brandi
Direttore Scuola di Specializzazione Oncologia Medica, Università di Bologna

 
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