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Il rispetto e il sostegno della persona che rifiuta il trattamento sanitario

di Daniele Rodriguez

Esaminiamo il caso di due medici, imputati del reato di violenza privata per non aver rispettato la volontà di una paziente che rifiutava di essere sottoposta a trasfusione di sangue in ossequio al suo credo religioso in quanto testimone di Geova

11 LUG -

Con decreto del 10 maggio 2022, il pubblico ministero di Napoli cita a giudizio due medici, imputati del reato di violenza privata per non aver rispettato la volontà di una paziente che rifiutava di essere sottoposta a trasfusione di sangue in ossequio al suo credo religioso in quanto testimone di Geova. Il fatto è avvenuto il 14 marzo 2018, poco dopo  l’entrata in vigore (31 gennaio 2018)  della legge 22 dicembre 2017, n. 219, che afferma in modo inequivocabile il dovere da parte del medico (e di ogni altro professionista sanitario) di rispettare la volontà della persona, quando esprime il consenso o il rifiuto al trattamento (o all’accertamento) sanitario proposto.

La vicenda, così come sintetizzata nel decreto, ha vari aspetti di interesse; nel presente commento sono presi in considerazione i seguenti tre:

1) il mancato rispetto del rifiuto della persona-paziente di essere sottoposta a trattamenti sanitari;

2) i rapporti intercorrenti fra disposizioni anticipate di trattamento e volontà attuale della persona;

3) le caratteristiche della relazione medico-paziente in caso di rifiuto di trattamenti salva-vita.

1. Il mancato rispetto del rifiuto della persona-paziente di essere sottoposta a trattamenti sanitari

Il diritto della persona di rifiutare un trattamento sanitario discende dall’affermazione esplicita del secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, per cui “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.”

Il codice di deontologia medica si è allineato da tempo a siffatta impostazione, come desumibile dalla tabella di seguito riportata.

1954

1978

1989

1995

1998

2006

2014

Art. 55.

 … In caso di mancato consenso, se l’intervento è ritenuto indispensabile, egli richiederà possibilmente un consulto; comunque dichiarazione scritta che comprovi il rifiuto.

Art. 39.

… Qualora il consenso venga rifiutato e l’intervento sia ritenuto indispensabile, il medico può sollecitare un consulto: in caso di rifiuto deve richiedere il rilascio di una dichiarazione liberatoria da parte dell’interessato o dei sui familiari.

Art. 40.

… In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente.

Art. 31.

… In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 33.

Art. 32.

… In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 78.

Art. 35.

… In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.

Art. 35.

… Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato.

Il medico acquisisce, in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale, il consenso o il dissenso del paziente, nei casi previsti dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità o da esiti che incidano in modo rilevante sull’integrità psico-fisica.

Il tema del rifiuto nelle versioni del Codice  di deontologia medica succedutesi dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana
Il tema del rifiuto compare per la prima volta nel codice di deontologia medica  nella  versione del 1954 (articolo 55), successiva alla promulgazione della Costituzione, ed è ripreso in termini analoghi nella versione del 1978 (articolo 39); in entrambe le stesure, si disciplina la circostanza in cui l’intervento sia ritenuto dal medico “indispensabile”, aggettivo che è da intendere riferito alla vita o alla incolumità della persona. In tal caso, è contemplata la procedura di richiedere un consulto. Il medico chiamato a consulto potrà, alternativamente, o confermare le medesime proposte precedentemente rifiutate o prospettare soluzioni diverse che la persona eventualmente accoglierà. Persistendo il rifiuto - così come nei casi nei quali  il trattamento non sia “indispensabile” - nessun trattamento, sarà posto in essere.

A partire dalla stesura del 1989 non è più prevista alcuna procedura particolare in caso di rifiuto dell’atto diagnostico o terapeutico, dovendo essere sempre rispettata la volontà della persona consapevole della propria scelta.

In definitiva, la legge n. 219 del 2017 non reca alcun contenuto innovativo in materia di  rispetto, da parte del medico, del rifiuto del trattamento sanitario manifestato dalla persona, perché ha:

- confermato il dettato costituzionale dell’articolo 32;
- accolto gli aspetti operativi indicati nel codice di deontologia medica.

Il comma 5 dell’articolo 1 della legge n. 219 sancisce che ogni persona capace di agire ha il diritto:
- sia di “rifiutare, in tutto o in parte, … qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”;
- sia di “revocare in qualsiasi momento … il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento.”

Il comma 6 del medesimo articolo stabilisce che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale.”

2. Rapporti fra disposizioni anticipate di trattamento e volontà attuale della persona.
Dalla sintesi della vicenda riportata nel decreto in esame, risulta che la paziente abbia prodotto, al momento dell’ingresso in ospedale, disposizioni anticipate di trattamento da lei stessa sottoscritte, nelle quali dichiarava espressamente e chiaramente di rifiutare ogni eventuale trasfusione di sangue si rendesse necessaria nel corso del ricovero, anche qualora si fosse presentata una condizione di pericolo per la sua vita.

La questione riguarda il concetto di attualità della manifestazione di volontà della persona-paziente nell’ambito della relazione di cura e, di conseguenza, il significato delle disposizioni anticipate di trattamento, che non può essere ambiguamente esteso  fino a includervi situazioni che sono invece manifestazioni attuali di volontà.

La manifestazione di volontà del paziente riguarda il progetto di cura proposto dall’équipe curante, che lo informa della storia naturale della malattia, del suo trattamento, delle possibili complicanze e delle corrispondenti soluzioni terapeutiche, nonché della perdita di coscienza eventualmente riconducibile alla malattia stessa o all’anestesia connessa all’intervento chirurgico. L’attualità del consenso o del rifiuto va di conseguenza concepita in senso logico e non meramente cronologico, come sottolineato da tempo dalla più attenta dottrina. Altrimenti ragionando, ogni volontà della persona non strettamente contestuale al singolo atto medico dovrebbe considerarsi invalida.

La sopravvenuta incoscienza non fa perdere validità al rifiuto (né al consenso) manifestato al medico dalla persona globalmente informata e consapevole della prevedibile evoluzione della patologia, del significato e delle conseguenze delle proprie decisioni. Il rifiuto così espresso, rispetto al progetto di cura, continua a essere attuale e valido oltre il momento della sua espressione, per cui appare improprio ritenere che esso non persista qualora sopravvenga uno stato di incoscienza e, di conseguenza, postulare la necessità di una formale dichiarazione anticipata di trattamento che confermi la volontà della persona quando diventi incosciente, volontà già manifestata ai curanti dalla persona nella consapevolezza della prossima perdita di coscienza.  Le dichiarazioni anticipate di trattamento  hanno senso solo qualora la persona versi attualmente in stato di incoscienza e non abbia precedentemente manifestato al medico alcuna volontà.

3. Le caratteristiche della relazione medico-paziente in caso di rifiuto di trattamenti salva-vita
Nel decreto in esame, non sono riportati dati oggettivi che consentano di ricostruire la gravità delle condizioni della paziente. è fatta generica menzione di “precarie condizioni di salute che abbisognavano di una trasfusione ematica” e di un successivo “peggioramento delle sue condizioni di salute”. Queste informazioni non delineano un quadro clinico preciso ma consentono di immaginare comunque che le condizioni fossero particolarmente gravi, al punto che la trasfusione fosse ritenuta dai medici necessaria alla sopravvivenza della persona.

Il comma 5, ultima parte, dell’articolo 1 della legge n. 219 prevede che “... Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.” Il “sostegno” al paziente comprende una particolare attenzione ai suoi bisogni, alle sue aspirazioni, alle sue difficoltà. Questa attenzione è espressione della cura dedicata al paziente da parte del medico e non include attività finalizzate a forzare il convincimento della persona, una volta che esso sia stato maturato dopo le opportune informazioni ricevute dal medico stesso.

Nel caso di specie, invece, risulta che, dopo la prima manifestazione del rifiuto della trasfusione di sangue in occasione dell’ingresso in ospedale ed una seconda conferma del rifiuto dopo un “approfondito counseling” (nel quale furono attendibilmente rappresentate le conseguenze del rifiuto) effettuato dal personale sanitario con la paziente, che dichiarò che “ogni ulteriore istanza sarebbe considerata coercitiva”, le erano comunque rivolti un “ripetuto invito dei sanitari a ricevere la trasfusione ematica” ed  un nuovo invito, all’uscita dalla sala operatoria, a prestare il consenso alla trasfusione.

Il decreto  di citazione a giudizio in esame sembra dunque descrivere una relazione da parte dei medici finalizzata alla revoca del rifiuto e non certo ispirata ad alcuna forma di “sostegno” alla paziente.

Prof. Daniele Rodriguez
Medico legale e  bioeticista



11 luglio 2022
© Riproduzione riservata


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