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Al Ssn non serve più programmazione, ma più cultura di sanità pubblica e più “controlli”

di Claudio Maria Maffei

Si torni a selezionare e formare meglio chi la sanità la governa, la amministra e la controlla. E forse è arrivato il momento di investire sulla formazione dei cittadini non solo ad un uso consapevole dei servizi, ma anche ad una partecipazione consapevole ai processi di programmazione e governo della sanità.

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Autorevoli editorialisti e commentatori di Quotidiano Sanità come Ettore Jorio e Filippo Palumbo propongono per il nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) un nuovo Piano Sanitario Nazionale (PSN) come fondamentale strumento di programmazione. Secondo Jorio “va ripreso il Piano Sanitario Nazionale che non c’è più dal 2006. Una omissione che la dice lunga, che costituisce la prova della irresponsabilità dei governi (tutti) che si sono succeduti.

Questo è il sintomo di come la tutela della salute è trattata male da decenni e di come è strumentalizzata come prodotto da spendere ad uso e consumo della politica: conta più una promessa alla quale se ne aggiunge un’altra senza che la prima sia realizzata e così via e senza una prestazione essenziale resa esigibile ovunque. Ciò da almeno venti anni.” Mentre secondo Palumbo “solo un PSN potrebbe dare sistematicità, indicare priorità, incentivare sinergie tra i diversi Piani settoriali (Oncologia, Prevenzione, Cronicità, ecc. ecc.) e, in definitiva, fissare l’agenda del SSN.”

Io penso invece che al SSN non faccia tanto difetto una carenza di programmazione, quanto una diffusa carenza di cultura di sanità pubblica e di controlli. Il nostro Paese ha già tanti strumenti di programmazione sia di settore/area di attività (ricordiamo tra gli altri: il Piano Nazionale della Cronicità, il Piano Nazionale della Prevenzione, il Piano Nazionale Demenze, il Piano Nazionale delle Malattie Rare, il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale e il Piano Oncologico Nazionale) che di ambito organizzativo (il DM 70/2015 per l’assistenza ospedaliera e il sistema di emergenza/urgenza e il DM 77/2022 per l’assistenza territoriale). Siamo poi ricchi di Linee guida nazionali come quelle sulle reti cliniche tempo dipendenti, sulla telemedicina e sulle reti di cure palliative e di terapia del dolore. E infine avremmo persino strumenti per il monitoraggio della applicazione di questi atti a livello regionale sia nell’ambito del cosiddetto sistema di verifica degli adempimenti LEA che sotto forma di tavoli di monitoraggio dedicati come quello sul DM 70 e la cabina di regia del Piano Nazionale della Cronicità.

Io in tutta onestà non capisco come potrebbe un PSN che fosse la summa di tutti questi strumenti rendere possibile ciò che in molte realtà regionali non è nemmeno partito in relazione alle singole progettualità sia di settore di attività che di ambito organizzativo. Per andare dietro alle sacrosante affermazioni di Jorio (la tutela della salute che viene strumentalizzata dalla politica) e di Palumbo (la necessità di mettere in fase tra loro i vari Piani settoriali) non vedo come un PSN potrebbe ovviare a questi limiti diventati strutturali in gran parte del Paese.

La mia impressione è che gran parte del problema non sia nella dispersione di tutti questi strumenti, ma nella incapacità o volontà di applicarli a livello regionale e nella incapacità o volontà di controllarli a livello centrale. Di tutti questi strumenti di programmazione quello che conosco meglio è il DM 70 che è anche quello che più influenza l’intero sistema visto che l’assistenza ospedaliera assorbe buona parte delle risorse e quasi la totalità delle attenzioni di chi governa la sanità (i politici) e la utilizza (i cittadini). Sulla mancata applicazione di molti dei “buoni” principi del DM 70 ha influito e influisce la cultura dei politici (vedi la affermazione di Jorio sulla tendenza della politica ad un uso strumentale della sanità), degli addetti (vedi la povertà del dibattito sul DM 70 in cui difficilmente si trovano interventi che vadano al di là della sottolineatura degli ospedali e dei posti letto “persi”) e dei cittadini (che votano per chi gli lascia sotto casa un ospedale mal funzionante). Così come influisce molto la assoluta carenza di analisi e verifiche centrali.

Quello che vale per il DM 70 (e cioè una influenza delle carenze culturali e della carenza nei controlli) vale a, mio parere, per tutto il resto. Mi spingo più in là: ma c’è ancora una cultura di sanità pubblica in Italia e se c’è chi e dove la esprime? Quella cultura che fornisce gli strumenti per mettere assieme le criticità generali ai vari macrolivelli e le criticità specifiche nei vari ambiti/settori per elaborare una strategia che sottragga come “vuole” Jorio la sanità alla strumentalizzazione dei politici e le dia sistematicità, coerenza e priorità come “vuole” Palumbo. Ecco non vedo molti punti di riferimento a cui questa cultura di sanità pubblica può fare attualmente riferimento in Italia e vedo anzi alcuni “vuoti” inquietanti (eccezioni a parte) come quello delle Facoltà di Medicina e più in generale dell’Università, come spesso testimonia lo stesso Ministro Schillaci.

Le possibili soluzioni? Per ora mi limito al primo passo: accettare l’idea che non ci servano altri Piani, ma si torni a selezionare e formare meglio chi la sanità la governa, la amministra e la controlla. E che forse è arrivato il momento di investire sulla formazione dei cittadini non solo ad un uso consapevole dei servizi, ma anche ad una partecipazione consapevole ai processi di programmazione e governo della sanità.

Claudio Maria Maffei



14 luglio 2023
© Riproduzione riservata


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