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Cassazione su linee guida e buone pratiche: “Non sono la stessa cosa”


Il tema è stato affrontato nell'ambito di una sentenza che vedeva coinvolti alcuni sanitari a seguito del decesso di un paziente per una omessa corretta e tempestiva diagnosi che ha impedito l'esecuzione dell'intervento chirurgico che gli avrebbe potuto salvare la vita. In ogni caso prima che l’iter di approvazione delle nuove linee guida della legge Gelli-Bianco sia concluso il riferimento resta l'articolo 590-sexies che richiama le buone pratiche clinico assistenziali per trarre indicazioni di carattere interpretativo. Quando le linee-guida saranno emanate, saranno loro “il fulcro dell'architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità sanitaria penale ". Ma in caso di negligenza e imperizia scatta comunque la condanna. LA SENTENZA.

23 OTT - Senza linee guida approvate secondo i canoni dettati dalla legge 24/2017 nei giudizi di responsabilità sanitaria si può fare riferimento all'articolo 590-sexies del codice penale solo nella parte in cui richiama le buone pratiche clinico-assistenziali.
 
Secondo la Cassazione (sentenza 47748/2018) prima che l’iter di approvazione delle nuove linee guida secondo l’articolo 5 della legge Gelli-Bianco sia concluso il riferimento è, appunto, l'articolo 590-sexies per trarre indicazioni di carattere interpretativo, mentre quando le linee-guida saranno emanate, saranno loro “il fulcro dell'architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità sanitaria penale ".
 
Quelle attuali di linee guida, si possono considerare, secondo la Cassazione, come buone pratiche clinico-assistenziali, anche se i giudici considerano questa eventualità una "opzione ermeneutica non agevole".
Le linee-guida sono raccomandazioni di comportamento clinico che derivano da un processo di elaborazione concettuale e quindi sono profondamente diverse dalle buone pratiche clinico-assistenziali sia sotto il profilo concettuale che sotto quello tecnico-operativo.
 
Naturalmente però se c’è imperizia e negligenza tutto questo non vale e, nel caso della sentenza, il medico va condannato, anche se il reato è estinto per prescrizione agli effetti penali, ma non per quelli civili.
 
Il fatto
Il ricorso per Cassazione riguarda la condanna penale della Corte di Appello (coinvolgendo anche una dottoressa poi assolta) in base agli articoli 113 (cooperazione nel delitto colposo) e 589 (omicidio colposo) del codice penale perché in qualità di medici di una Divisione clinicizzata di cardiologia di un ospedale, omettendo la tempestiva identificazione della patologia (dissecazione aortica) da cui era affetto il paziente seguito dal medico condannato e visitato dalla dottoressa, e omettendo di conseguenza l'effettuazione dell’adeguato intervento chirurgico, provocavano la morte del paziente per tamponamento cardiaco da rottura di dissecazione del segmento prossimale dell'aorta.

Secondo il medico i giudici di merito hanno dato per scontata l'esistenza di sintomi e di dolori che, dati documentali alla mano, non erano riscontrabili.
Il medico effettuò personalmente l’ecografia cardiaca descritta in cartella clinica, ma non di più dato che in quel momento la diagnosi era unica e la
terapia impostata aveva dato effetti positivi, con la cessazione del dolore toracico e la stabilizzazione dell'ECG, della pressione sanguigna e di altri
parametri vitali.
La visione diretta delle lastre della radiografia toracica non era possibile perché al reparto dove era stata richiesta era giunto solo il referto del radiologo e la lastra è stata materialmente trasmessa solo nei giorni successivi e pertanto, per di più nel giorno di Pasqua, era impossibile pretendere la trasmissione del supporto visivo.

Secondo il medico quindi non c’era stata alcuna sottovalutazione di sintomi né alcuna negligenza nell'applicazione dei protocolli di intervento in base alla diagnosi di sindrome coronarica acuta, che in quel momento non aveva alternativa e che sembrava confermata dal buon esito apparente della terapia farmacologica impostata, anche secondo lo stato totalmente asintomatico del paziente, con la regressione del dolore retrosternale e del blocco atriale da cui era affetto.
 
La necessità di una revisione della diagnosi, secondo il medico non sarebbe stata possibile nemmeno dopo il rilievo da parte del personale infermieristico, che il paziente aveva dormito poco durante le ultime ore della notte per intolleranza all'allettamento, interpretata dai periti come esordio di un dolore lombare dovuto alla dissecazione aortica in atto, senza che vi fosse dolore toracico e retrosternale.
 
La sentenza
La Cassazione nella sua sentenza ha seguito l’impostazione data dalle Sezioni unite, che per la responsabilità professionale hanno sottolineato alcuni principi di diritto: “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio contro fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica-, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, cosìcchè, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con ‘alto grado di credibilità razionale’.

Secondo la Cassazione l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi “il ragionevole dubbio sulla reale efficacia della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio”.

“Ne deriva – prosegue la Cassazione - che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale”.

Ma, continua la Cassazione “sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa”.

In questo caso già la Corte d’Appello ha sottolineato che dagli accertamenti dei periti è emerso che entro le prime sei ore dall'ingresso in ospedale del paziente, quando la dissezione era verosimilmente limitata alla sola aorta ascendente e poteva essere individuata con una ecocardiografia correttamente eseguita e integrata da un approccio trans-esofageo o anche valutando correttamente la RX toracica ed eseguendo una tac multistrato, le probabilità di successo dell'intervento chirurgico erano molto elevate, in un soggetto giovane, senza comorbilità, in assenza di estensione della dissezione, agli osti coronarici e di ematoma pericardico. In tale situazione le probabilità di successo erano stimabili in misura superiore al 90%”.

“Al momento dell'estensione della dissezione a tutta la aorta – prosegue la sentenza - stimabile nelle sei-otto ore successive al ricovero, le chances di sopravvivenza, pur inferiori a quelle connesse ad una diagnosi tempestiva, sarebbero state ancora superiori al 50-60%. Ne deriva che le probabilità di successo, con sopravvivenza del paziente, sono rimaste ottime per l'intero periodo in cui è rimasto affidato alle cure del medico, tanto più che si trattava di un paziente relativamente giovane (55 anni), che non risultano accertate, nemmeno all'esito dell'esame autoptico, altre patologie rilevanti e che la struttura d'eccellenza in cui il paziente era ricoverato assicurava la migliore assistenza e professionalità”.

Per quanto riguarda il nesso causale in relazione però alla posizione processuale della dottoressa, la Corte d'appello ha evidenziato che quest'ultima ha assunto la cura del paziente 12 ore dopo il ricovero in UCIC.

“È vero – scrive la Cassazione - che anche la dottoressa si appiattì sulla diagnosi formulata dal collega più anziano, senza rivalutare autonomamente, come doveroso, la situazione clinica del paziente e gli esiti dell'ECG e dell'analisi degli enzimi cardiaci e senza tenere conto della persistenza del dolore lombare, cioè senza considerare tutta una serie di elementi che imponevano, proprio per la specializzazione rivestita, una rivisitazione della diagnosi ed una rivalutazione critica di essa. Tuttavia, non può sottovalutarsi il decorso del tempo. Erano, infatti, trascorse già oltre 12 ore dall'insorgenza del primo sintomo. Altro tempo sarebbe stato necessario per l'esecuzione degli interventi diagnostici, anche strumentali, necessari per la verifica dell'originaria diagnosi e la ricerca di un'alternativa diagnostica”.

A quel punto l'intervento non avrebbe potuto offrire le stesse chance di successo ancora molto elevate nelle ore precedenti. In questo caso il ricorso all'intervento chirurgico sarebbe stato ad alto rischio e sicuramente scarsamente praticabile.

La Cassazione quindi rileva “l'insussistenza del nesso eziologico fra le omissioni colpevoli in cui pure è incorsa la dottoressa e l'evento letale”.
Nella vicenda decisa dai giudici, in ogni caso, anche volendo accedere alla tesi dell'equiparazione tra linee-guida vigenti e buone pratiche, tale circostanza non avrebbe potuto comunque salvare il medico.
 
Infatti, resta sempre fermo il fatto che l'articolo 590-sexies esclude la punibilità solo se sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali mentre in questo caso il medico ha agito con imperizia e negligenza, accertate dai giudici nel corso del processo, facendo venire meno i due dei presupposti fondamentali per l'applicabilità della legge Gelli.

23 ottobre 2018
© Riproduzione riservata

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