Stati Generali della professione medica. Due condizioni per il loro successo
di Antonio Panti
La sede naturale per discutere del presente e soprattutto del futuro della nostra professione sono gli Stati Generali promossi dalla Fnomceo. Che avranno senso però a due condizioni: la partecipazione dei giovani colleghi e il superamento della tentazione della cosiddetta retrotopia, cioè la recriminazione per un passato idealizzato e forse neppure esistito
18 FEB - Dopo qualche decennio di professione spesso mi interrogo sul perché del disagio dei medici mentre la medicina fa progressi incredibili e la società spende tanti soldi per garantirsi la salute. Penso che la nostra cultura affronti un periodo di confusa transizione e la medicina non possa starne fuori. Forse è il concetto di professione (il professionalismo) che non regge agli assalti del mondo che cambia.
I sociologi hanno posto a base del professionalismo alcune caratteristiche. Una professione (la medicina ad esempio) è un sistema di saperi fondato su conoscenze astratte e formalizzate, riconosciuto dallo Stato. Solo chi possiede questo sapere e ne ha le "credenziali" rilasciate dall'Università può esercitare (altrimenti è abusivo); è la professione a definire la propria sfera di competenza e la sua divisione con altre categorie, in pratica controlla il mercato del lavoro; l'apprendistato si svolge presso colleghi anziani e solo da poco è retribuito. La professione definisce i confini del proprio sapere e della prassi e l'innovazione è riconosciuta dalla professione stessa.
Questi privilegi presuppongono un ideale di servizio espresso nei codici deontologici. Il medico è dedito al paziente e alla collettività prima che al compenso e aspira a svolgere un buon lavoro.
Se le professioni hanno il monopolio del sapere, come conciliare questo col monopsonio della domanda? Chi acquista quasi tutta la professione finora ha avuto un sacro terrore dell'università ma oggi si sente qualche scricchiolio.
Inoltre, per quanto si amplino i servizi medici i cittadini chiedono sempre di più. E come conciliare l'ideale di servizio con il conflitto di interesse, sempre più pressante tanto che il Parlamento se ne occupa? E riescono i medici a decidere la divisione del lavoro, altro cardine del professionalismo, nelle complesse strutture della moderna sanità?
Ancora, quanto carico amministrativo è sopportabile senza ledere l'indipendenza che è alla base dell'ideale di servizio? Il medico è dedito al bene del paziente ma è retribuito dall'azienda per cui lavora e che gli offre l'organizzazione. Chi decide quanto e come si spende in sanità vorrà pur rendersi conto dei risultati.
Vengono al pettine tanti nodi. Il numero chiuso non è una mera questione di posti di lavoro. I medici sono un'elite intellettuale e assistiamo alla proletarizzazione della medicina? E' la stessa questione dei limiti dello sviluppo; tutti vogliono la casa al mare, ma a Capalbio non a Genova. Eppure chi abita a Genova ha la casa al mare. Più medici ci sono più ci faremo guerra con gli infermieri che sono anch'essi una professione protetta.
Finora l'Università si è disinteressata del mercato del lavoro perché sapeva di dominarlo. Non è più così sia per la presenza di un solo acquirente, il SSN, sia per la comparsa di molte altre professioni laureate; così crolla una delle basi del ruolo sociale del medico. Come pensare una professione meno subordinata al mercato in tempo di liberismo finanziario?
Ciò che rafforza il ruolo dei medici è di aver sempre evitato l'obsolescenza professionale. Ma l'incertezza del lavoro, che comincia a manifestarsi, contrasta con le sicurezze insite nell'essere professionisti. La sottooccupazione non è solo un problema individuale ma una questione di ruolo sociale. La marginalità economica dei giovani pone le basi di un cambiamento reale della professione.
Infine la persona che si rivolge al medico oggi è paziente, cliente, utente, consumerista, consumatore onnisciente. L'ideale di servizio nasceva da un presupposto elitario e meritocratico. E' indubbio che la crisi del principio di autorità ha inficiato uno dei capisaldi della professione; essere più autorevoli del dr. Google, in tempi di fake news e di uno vale uno, costa molta fatica.
Altro punto fermo è la pretesa competenza unica a giudicare la qualità professionale, ora spesso in mano ai magistrati. Altresì non è più il medico che decide gli ambiti di lavoro delle professioni sanitarie ma questi sono frutto di negoziazione o di autonoma decisione della politica. Il governo clinico e la difesa dell'equità nei servizi medici appaiono avvolti nella nebbia.
Incombe su tutto la questione della relazione umana (che è tempo di cura, come dice la legge). Occorre ripensare i contratti e saper gestire il rapporto di fiducia in tempi così tumultuosi e privi di riferimenti etici condivisi.
In conclusione i medici hanno visto diminuire il controllo sui limiti del loro lavoro. Altresì i medici sostengono nell'interesse del cittadino di essere agenti morali e non fornitori di servizi. E il monopolio del sapere, il controllo della qualità del lavoro, le scelte innovative, il fabbisogno formativo, la formazione e l'apprendistato, come possono sopravvivere in tempi di scarsità di risorse, di frazionamento strutturale, di regionalismo differenziato, di vastissimi interessi economici, di incertezze politiche? Eppure obiettivo comune tra Stato, società e professione non può che essere il mantenere elevato lo standard del servizio e garantirne la fruizione a tutti con una particolare attenzione alle future generazioni.
Come andrà a finire? La questione professionale non è inserita nel contratto di governo. Eppure il prevalere del mercato sulla conoscenza, dell'amministrazione sulla discrezionalità, del mansionario delle prestazioni sull'ideale di servizio, della tecnologia sull'etica, creano un disagio che porta al burn out. La deontologia obbliga i medici all'indipendenza ma il prevalere del mercato crea una situazione in cui il profitto si accompagna alla diminuita discrezionalità nelle scelte cliniche.
I medici dovrebbero mostrarsi quali custodi morali della scienza e delle applicazioni tecnologiche.
Allora bisogna soffermarsi sul fatto che questi problemi in Italia si scontrano con il regionalismo differenziato, la mancanza decennale di contratti che saranno ancora rinviati per l'aumento dell'IVA, il patto sulla salute, la discussione sul numero chiuso a medicina, la revisione del LEA e altro ancora in un caos senza precedenti.
E intanto la tecnica cambia la professione: L'ICT deep learning sostituirà il medico quando, tra poco, sarà disponibile per i pazienti? I medici dovranno risolvere i problemi che il computer lascia insoluti? I medici sono un'elite in grado di interpretare la medicina tra progressi tecnologici e cambiamenti sociali e non dovrebbero disputare con gli infermieri su chi fa una fiala di morfina a bordo di un'ambulanza.
Nello stesso tempo viene al pettine il nodo principale della questione medica. La medicina è una scienza fondata su valori immutabili e sulla definizione di ontologie nomotetiche di cui garantisce il progresso sul piano conoscitivo e clinico oppure è una costruzione sociale che varia a seconda di come la società definisce salute e malattia e di come la tecnologia costringe a modificare i confini antropologici della cura?
Resta un ultimo dirimente problema: per chi discutiamo? Che ne pensano i giovani colleghi, quelli che saranno al comando della medicina tra dieci o vent'anni?
La sede naturale per discutere tutte queste questioni sono gli Stati Generali della Medicina. Che avranno senso a due condizioni: la partecipazione dei giovani colleghi e il superamento della tentazione della cosiddetta retrotopia, cioè la recriminazione per un passato idealizzato e forse neppure esistito.
Unico dato veramente positivo è che la sanità migliora sempre e mantiene i suoi impegni con i cittadini grazie al lavoro quotidiano di tutti i professionisti che, anche solo per questo, meritano quella considerazione di cui non sempre godono.
Antonio Panti
18 febbraio 2019
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