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Le 100 tesi per gli Stati Generali della professione medica. Solo filosofia? Ben venga!

di Giacomo Delvecchio

Un volume impegnativo come questo, che già dal titolo dichiara un ampio programma, non nasce dal nulla, ma è il naturale compimento di molti anni di riflessioni e di scritture. Sicuramente è filosofia... ma dietro ogni scelta c’è sempre, nascosta o palese, una filosofia. Il nostro comune dovere di medici è di dichiararla. Solo così ci diciamo chi siamo per dirci chi vogliamo essere

18 FEB - A cura della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri è stato pubblicato del tutto recentemente ad opera di Ivan Cavicchi un testo di grande valore dedicato a “Stati Generali della professione medica. 100 tesi per discutere il medico del futuro”.
 
Un volume impegnativo come questo, che già dal titolo dichiara un ampio programma, non nasce dal nulla, ma è il naturale compimento di molti anni di riflessioni e di scritture; queste riflessioni e scritture sono quindi state riassunte e circostanziate in un testo, un vero libro di filosofia della medicina indirizzato a medici, che va letto e quindi meditato e poi riletto per ulteriori stimoli riflessivi e per più ampie discussioni che devono servire, a loro volta, per essere tradotte in scelte di campo concrete nell’esercizio quotidiano della professione medica.
 
Per questi motivi il testo di Ivan Cavicchi è importante e la sua lettura è irrinunciabile, non solo per l’intera categoria medica ma per l’intero mondo della Medicina e della Sanità odierne che vivono un momento di crisi importante, verrebbe da dire una crisi epocale, e sono sul crinale di grandi cambiamenti culturali e organizzativi che avranno ripercussioni future che per certi aspetti istituzionali e sociali non sono ancora ben prefigurabili da tutti gli attori in campo. Il testo è nato, quindi, con lo scopo dichiarato di accompagnare il cambiamento in atto e per cercare di dirigerlo verso orizzonti non appiattiti su derive tecnocratiche o meramente economicistiche che trasformano l’antica professione liberale del medico in una mansione impiegatizia.
 
Condensare un testo così ricco di idee e così pieno di sollecitazioni non è facile né è compito di questa nota, anche perché una completa recensione richiederebbe il riesame scompositivo di tutte le tematiche affrontate e questo sforzo, di necessità, occuperebbe a sua volta un intero volume e richiederebbe molte competenze dottrinali. Tra le tante possibili e di varia natura riguardanti la società, l’economia, la scienza, le modalità organizzative di lavoro sul territorio o in ospedale e la situazione di crisi attuale con le proposte di tesi innovative, merita soffermarsi su alcune considerazioni generali stimolate dal testo.
 
La società odierna è una società complessa che è stata definita post moderna in virtù del fatto che le “grandi narrazioni” culturali sono venute meno nella loro capacità di indirizzare organicamente la vita sociale. Analogamente la medicina della società post moderna, è post moderna anch’essa, nel senso che, da una parte, sono venute meno le grandi certezze positivistiche inerenti i concetti di verità scientifica e di prova, mentre dall’altra parte sono parimenti venute meno le grandi identità valoriali che improntavano socialmente l’esercizio dell’arte medica. Nessuna nostalgia del passato, ma solo il riconoscimento che, nell’epoca del pensiero debole, una ragione forte lascia spazio ad un multiculturalismo relativistico.
 
Come frutti di questi cambiamenti culturali e sociali la verità scientifica è stata sostituita da più modesti derivati empirici, quali le linee-guida omologanti validate dall’EBM che, senza misconoscerne gli apporti alla sistematizzazione delle conoscenze, all’origine si presentava addirittura come nuovo paradigma per la medicina moderna.
 
La verità valoriale, che uniformava i comportamenti sociali di medici e pazienti, meglio definibili come “esigenti” nella terminologia introdotta da tempo da Ivan Cavicchi, si è trasformata in criteri di soggettività nelle scelte individuali di salute in modo che le opinioni (leggasi: preferenze mutevoli, confondendo a volte dietro questo termini i diritti con i desideri) sono elevate a guida indiscussa con emersione di nuovi conflitti e contraddizioni sociali in cui si rivendica una cosa e contemporaneamente anche l’opposto.
 
Di conseguenza la prassi consolidata che normava il tradizionale e continuativo rapporto paternalistico medico-paziente, in cui la verità scientifica si traduceva in azioni sul malato prive di intermediazioni, è venuta meno; il rapporto tradizionale col malato si è trasformato in pochi anni in un più labile rapporto che a volte può assumere l’aspetto di un contingente e predeterminato scambio di natura tecnica.
 
Ciò ha trasformato la responsabilità morale del medico della persona (con preciso riferimento al titolo del libro sempre attuale di Francesco Salvestroni sebbene edito esattamente cinquant’anni fa) nella responsabilità giuridica, a volte quasi una sottospecie di responsabilità contrattuale, se si potesse dire: mercantile, che intercorre tra prestatore d’opera e acquirente.
 
Ora, nella società complessa la conoscenza è una, anzi, è la risorsa fondamentale per decidere. Questo è noto e riconosciuto da tutti a tutti i livelli: individuale, sociale, istituzionale e politico. Ma per decidere bisogna poter scegliere tra un paniere di opzioni non solo teoricamente ma fattivamente disponibili e, prima ancora, bisogna saper scegliere. Anche nella medicina complessa di oggi, in cui in virtù della tecnologia si offre un ricco paniere di scelte concretamente diversificate, bisogna saper scegliere; e questo è più difficile che in passato. Questo è il punto.
 
Il “saper scegliere” non va confuso con un generico decisionismo, spesso inefficace e quasi sempre inopportuno, né con un altrettanto generico e altrettanto pericoloso efficientismo e proceduralismo.
 
L’efficientismo ha due volti: nella concezione “al meglio”, può ridursi ad essere la versione economicistica del dirigismo; all’opposto può scivolare nell’affaccendarsi scomposto e consumistico di una tecnologia sempre più spinta e autoreferenziale. Il proceduralismo, a sua volta, può ridursi ad essere la versione burocratica del decisionismo, delegando le scelte ad un automatismo indipendente dal singolo medico e identificato in una astratta best practice; ricavandone il vantaggio secondario di una supposta tutela giuridica allocata in scelte “oggettive” perché standardizzate e che, in quanto tali, riducono l’insicurezza e la paura delle conseguenze, il proceduralismo può confondersi con una versione opaca dell’opportunismo.
 
La tecnologia moderna, poi, che tanto fa e ancor più potrebbe e sempre più potrà per la salute delle persone e delle popolazioni, semplifica molti problemi medici che fino a poco tempo fa si sarebbero etichettati come difficili e rende più accessibili, distribuendole equitativamente su molti, le soluzioni di cura ma, paradossalmente, rende più difficile scegliere, prima, e perseverare nella scelta intrapresa, poi.
 
Anche perché tante diverse soluzioni epistemicamente valide non sono sempre altrettanto eticamente valevoli e perché il peso di una scelta – indipendentemente da quale essa sia – specie se compiuta nella cronicità evolutiva di una condizione morbosa, incide nelle vite delle persone coinvolte e ha riverberi spesso non indifferenti in servizi e in costi sociali – e alla loro sostenibilità - che a quella scelta sono connessi.
 
Ora, quando si fa scienza, e la clinica è l’esercizio scientifico attraverso cui la medicina entra in relazione diretta con la società attraverso l’intermediazione coi cittadini malati che per definizione sono più fragili e il cui interesse va tutelato come primo bene, la decisione epistemica è una decisione razionale perché è basata su metodo e logica. Metodo e logica sono normativi, cioè sono vincolanti orientando “per necessità” il giudizio del medico che cerca una diagnosi, cioè cerca una spiegazione naturalistica della malattia dal suo esordio causale a tutto il suo decorso comprensivo dell’esito finale e, altresì, utilizza previsionalmente questa conoscenza naturalistica per fondarvi una terapia che causalmente modifichi sia il quadro sintomatologico che il decorso fisiopatologico naturali.
 
Questo non basta, o, almeno, non basta più. Non è sufficiente alla medicina di oggi che guarda al domani. Non si può curare solo la malattia; programma nobile ma angusto che, forse, andava bene una volta quando i malati non erano rappresentati nei loro diritti di cittadinanza. Ma poi, ogni clinico sa che non esistono malattie avulse dal malato; per curare la malattia bisogna curare (aver cura) del malato.
 
Curare il malato non è solo una delle tante possibili modalità di aver cura del malato; è la modalità precipua del medico ed è la modalità socialmente attesa dal ruolo del medico. Curare il malato non è parteggiare un bon ton come si insegnava ai giovani avviati alla professione negli antichi galatei medici. Curare, nel senso che gli stiamo attribuendo, è usare il linguaggio, primo strumento per poter dialogare.
 
Per dialogare, scopo superiore del linguaggio, bisogna preliminarmente ascoltare e la capacità di ascolto va molto oltre le tecniche di comunicazione come vengono insegnate in tanti corsi accreditati ECM; richiede qualcosa di più o qualcosa di diverso: un poco di empatia e un poco di rispetto e un poco di attenzione e un poco di tempo, che così diventa, perché lo è già, tempo di cura.
 
Come risposta all’ascolto, questo linguaggio, così circoscritto, è l’oggetto concreto della relazione di cura e attraverso questo “oggetto” relazionale (si perdoni l’improprio uso della parola “oggetto”, perché dietro la parola parlata c’è la persona parlante) passa una transazione di moti affettivi che, ed è inevitabile, diventa transazione reciprocante e qui si matura la capacità di scelta con responsabilità (termine che andrebbe sottolineato in un’epoca di pensieri deboli per scelte deboli).
 
Questa scelta che è conclusiva, alla fine, racchiude in sé il senso ermeneutico e antropologico della cura che si affianca allo scopo epistemologico e scientifico della terapia. In questo modo si è adeguati nelle scelte portate avanti in una medicina complessa, in cui scienza e antropologia sono liminari, e in questo modo, ma solo in questo modo, non si è succubi ma si è artefici della propria professione e si è attori liberi nella società.
 
A questa modalità di “saper scegliere” bisogna esser formati; necessitano una capacità riflessiva e una autoformazione continua alla riflessività; questa formazione, al posto di tanti addestramenti alla tecnologia, serve al medico del futuro a partire dal medico di oggi per un “modo di essere medico” in cui il saper scegliere venga naturale.
 
Modo di essere: dietro questo modo di essere ci sono i paradigmi educativi cari alla pedagogia medica: sapere, saper sapere, saper fare e saper essere; possono costituire una tesi sintetica per discutere “il medico del futuro”? Filosofia, si potrebbe essere tentati di rispondere frettolosamente, soprattutto, come oggi, quando si è troppo presi dal fare e si è convinti di esercitare un’arte del fare.
 
Sicuramente è filosofia; ma dietro ogni scelta c’è sempre, nascosta o palese, una filosofia. Il nostro comune dovere di medici è di dichiararla. Solo così ci diciamo chi siamo per dirci chi vogliamo essere.
 
Giacomo Delvecchio
ATS Bergamo, socio della Società Italiana di Pedagogia Medica, membro della Fondazione Pietro Paci

18 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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