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Detenuti nei centri di salute mentale senza indicazione clinica. Per gli psichiatri: “Una distorsione legislativa pericolosissima”


L’allarme lanciato a Firenze in apertura del convegno nazionale della Società Italiana di Psichiatria (Sip): “L’applicazione della L.81/2014 e la conseguente chiusura degli Opg ha determinato difficoltà di applicazione della legge sia per il mondo giuridico che per quello sanitario”. Va a finire così che anche i detenuti senza vizio di mente, che accusano un disadattamento alla situazione del carcere, vengano inviati presso i servizi di salute mentale senza una chiara indicazione clinica, ”in conseguenza di ordinanze giuridiche che pretendono di scaricare sulla sanità situazioni di disadattamento alla detenzione in carcere”.

21 GIU - “In Italia, se permane l’attuale trend conseguente alla sentenza 99/2019, ogni anno oltre 400 persone provenienti dal carcere verranno inserite nelle strutture psichiatriche senza averne alcuna indicazione. Oltre 400 su circa 8 mila pazienti ‘veri’ che ottengono una misura di sicurezza non detentiva presso i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) o detentiva nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Sono numeri non ufficiali, certamente sottostimati, ma che descrivono la situazione si trovano i singoli DSM e le REMS sul territorio dal mese di aprile 2019, e che sottolineano come il fenomeno ormai interessi il 5% del totale degli autori di reato inviati alla psichiatria”. A lanciare l’allarme è la Sip (Società Italiana di Psichiatria) in apertura del convegno nazionale a Firenze.

Si tratterebbe, in pratica, di detenuti mentalmente sanissimi, che sono trasferiti in strutture della salute mentale “in conseguenza di ordinanze giuridiche che pretendono di scaricare sulla sanità situazioni di disadattamento alla detenzione in carcere”, accusa la Sip. “Ordinanze che non solo sono inaccettabili, ma rischiano di compromettere i luoghi di cura della salute mentale che si trovano a dover gestire falsi pazienti sociopatici. Decisioni che non tengono conto della fattibilità del percorso terapeutico. Una situazione che sta diventando intollerabile”.

“Emblema di questa situazione”, spiega la Sip, “sono i pazienti affetti dal cosiddetto ‘Disturbo Antisociale di Personalità’ che, quando diviene il tratto prevalente del reo, non dovrebbe comportare alcuna applicazione del vizio di mente ed essere confuso con una malattia”. Il disturbo, secondo i dati della Sip, si manifesta prevalentemente negli uomini dove, nella popolazione generale, ha una prevalenza del 3% rispetto all'1% delle donne, aumentando sino al 30% nella popolazione detenuta.

La Società italiana di psichiatria spiega, inoltre, come “secondo studi recentissimi vi è un maggiore aumento di persone con disturbo antisociale di personalità nella cosiddetta “Generazione Z” (i nati dal 95 fino al 2012), che ha una maggiore predisposizione a sviluppare tali comportamenti, rispetto ai Millennials (i nati tra l’81 e il 95) per il maggior isolamento relazionale e il più diffuso abuso di sostanze. Di questo si è parlato oggi in apertura del convegno nazionale della Società Italiana di Psichiatria, a Firenze fino al 23 giugno”.

“Questa distorsione della funzione terapeutica delle residenze psichiatriche da parte di una certa magistratura – dice Enrico Zanalda, presidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL Torino 3 – è supportata da ordinanze d’inserimento in strutture psichiatriche senza l’accertamento dell’indicazione clinica all’inserimento stesso. Siccome il detenuto sostiene di stare male in carcere, viene spedito in psichiatria. Ma lo scopo di queste decisioni è di spostare una persona scomoda dal contenitore carcerario ad un altro contenitore, quello psichiatrico, attribuendo alla psichiatria un ruolo cautelativo custodiale perso da tempo. ‘Ciò che fa paura e non si controlla si nasconde’ è quello che accadeva nei manicomi dell'inizio secolo ed è quello che si sta verificando negli ultimi tempi, cioè chiedere alla psichiatria un ruolo di controllo sociale sostenuto dal falso assioma che maggiore è l’intensità terapeutica della struttura psichiatrica e maggiore sarà la capacità a contenere situazioni comportamentali ingestibili non tenendo minimamente  in considerazione l’indicazione clinica delle residenzialità psichiatriche, continuando nel pregiudizio che i comportamenti violenti siano collegati alla malattia mentale”.

“Sta insomma passando in modo insidioso – aggiunge Salvatora Varia, vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore di Unità Complessa di Psichiatria presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo – l'idea che la psichiatria non debba solo curare, ma anche prevenire la reiterazione dei reati e gli psichiatri debbano trasformarsi in educatori degli autori di reato con disturbi psichici. Inoltre si sta vedendo una progressiva trasformazione dei servizi ospedalieri di psichiatria e delle comunità terapeutiche per la riabilitazione dei disturbi psichici, in sezioni distaccate delle case circondariali, al fine di attenuare il sovraffollamento degli Istituti di Pena. Questa è una palese violazione dei diritti dei pazienti tradizionali dei nostri servizi, che trovano difficoltà crescente a individuare un luogo di cura adeguato ai loro bisogni”.

Come accennato, emblema di questa situazione sono i pazienti affetti dal cosiddetto ‘Disturbo Antisociale di Personalità’. “Non riuscendo a tollerare la frustrazione di loro desideri perversi – spiega Zanalda – questi soggetti possono arrivare all'uso della violenza contro gli altri e/o contro sé stessi. Si verifica il paradosso conseguente ad una sentenza della Suprema Corte del 2005 per cui alcune forme di disturbo di personalità possono essere considerate infermità di mente e se erroneamente avviene per il disturbo di personalità antisociale, il sociopatico gode di tutte le forme di immunità giuridica che sono previste per i soggetti incapaci di intendere e volere”.

La Sip denuncia anche come i rei ‘falsi infermi’ siano “più facilmente dichiarati da periti che non hanno mai lavorato nei servizi di salute mentale e, quindi, non sarebbero idonei a valutare queste situazioni. Secondo gli ultimi studi (Fernandes S: Prediction of a Rise in Antisocial Personality Disorder through Cross- Generational analysis. 2019) vi è un discreto aumento di persone con Disturbo Antisociale di Personalità, una crescita nelle cifre statistiche che complica tutte le situazioni in cui questi soggetti vengono considerati pazienti psichiatrici. In particolare la cosiddetta “Generazione Z” (i nati dal 1995 fino al 2012) ha una maggiore predisposizione a sviluppare tali comportamenti rispetto ai Millennials (i nati tra il 1981 e il 1995) per il maggior isolamento relazionale e il più diffuso abuso di sostanze”.

“Nei detenuti – aggiunge Zanalda – è possibile individuare le caratteristiche che fanno sospettare la prevalenza della sociopatia come la mancanza di disturbi psichiatrici e di trattamenti in ambito specialistico precedenti alla detenzione, la teatralizzazione dei sintomi e la mancanza di collaborazione con i sanitari su proposte differenti da quelle pretese, fino all’evidente utilizzo della propria sintomatologia a scopo manipolativo dell’ambiente circostante. Le persone in questione sono disposte a condividere solo quegli obiettivi che danno loro dei vantaggi immediati. È quindi evidente come possano mandare in crisi la riforma conseguente alla L.81/2014. Per cui se da un lato dobbiamo incrementare i percorsi di cura per i pazienti autori di reato trattabili clinicamente, dall’altro bisogna riservare alle persone con prevalente sociopatia dei percorsi carcerari rieducativi, almeno sino a che non si decidano a collaborare. Credo – conclude Zanalda – sia dovere della comunità scientifica che rappresento ribadire il ruolo medico-terapeutico della psichiatria e prendere le distanze rispetto alla tendenza di riattribuirci un ruolo custodialistico”.

21 giugno 2019
© Riproduzione riservata

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