Gentile direttore,
in questi giorni 80.000 giovani sono stati impegnati in un processo di selezione che assegnerà i 15.000 accessi ai corsi di laurea in medicina, accessi che diventeranno, questo è l’annuncio, 20.000 il prossimo anno accademico. In quasi tutti i paesi l’accesso ai corsi di laurea per le professioni sanitarie, e quella medica in particolare, è soggetto, in varie forme, a politiche di “numero chiuso”. Le ragioni sono molteplici, ma la necessità di assicurare la qualità del processo formativo, l’entità delle risorse che devono essere impegnate e l’effetto che la disponibilità di professionisti inevitabilmente genera sulla domanda di prestazioni sono tra quelle più spesso citate a sostegno di tali politiche.
Se guardiamo alle iscrizioni a medicina, che nella maggior parte dei casi rappresentano solo la parte iniziale di un percorso formativo più lungo (specialità, scuole di medicina generale), le decisioni prese nel nostro paese e le politiche dichiarate non possono che sollevare qualche perplessità. Per quasi un decennio, a partire dal 2009, i posti banditi si sono attestati intorno a 10.000, segnando, peraltro, un deciso aumento rispetto alla media del periodo precedente (7.500). A partire dall’anno accademico 2019/20 è iniziata una progressione impressionante che ha portato ai 15.000 posti messi a bando negli ultimi due anni e ai 20.000 preannunciati.
Il tema è se tale progressione ha un qualche senso. Dovrebbe essere superfluo segnalare l’inconsistenza logica di un ragionamento che nel dibattito pubblico ha spesso accompagnato le decisioni sui numeri: “mancano i medici e, quindi, aumentiamo i posti a medicina”. Semplificando al massimo, le decisioni di oggi sono destinate a produrre i loro effetti tra circa un decennio, quando la maggior parte degli iscritti termineranno il loro corso di studi. Si tratta di una tipica situazione “long fuse, big bang”, accendiamo oggi (2023) una miccia che non possiamo più spegnere, con una esplosione collocata in un futuro relativamente lontano (2033), ma di cui conosciamo già oggi alcuni elementi. Se per certi versi è incerto quale modello di sanità potrà effettivamente consegnarci l’innovazione tecnologica, ad esempio intelligenza artificiale e telemedicina, quanti medici usciranno dal sistema è molto meno incerto.
Secondo Eurostat i medici attivi (operanti nel pubblico e nel privato) che nel 2021 si trovavano nella fascia di età 45 – 54 anni erano circa 42.000 contro i 72.000 della fascia 55 – 64. Gli iscritti all’albo (attivi e non attivi) nelle medesime fasce erano rispettivamente 55.000 e 83.000. Questi numeri indicano inequivocabilmente che nel decennio 33 – 42 le uscite di medici dal sistema si ridurranno notevolmente e che nello scenario peggiore 20.000 medici che entrerebbero nel sistema in un solo anno potrebbero rappresentare da soli circa la metà dei fabbisogni di un intero decennio. Più realisticamente nel decennio 33-42 potrebbero uscire circa 60/70 mila medici e rispetto a tali volumi andrebbero formulate scelte responsabili.
La responsabilità andrebbe esercitata innanzitutto nei confronti dei futuri pazienti. Non è possibile immaginare che un sistema formativo (laurea in medicina, ma anche scuole di specializzazione) possa sopportare nell’arco di un quinquennio un raddoppio degli studenti mantenendo quei livelli di qualità che i numeri chiusi intendevano garantire. Poiché aumenti sostenuti e prolungati nel numero di studenti mettono in moto processi di adeguamento nelle risorse (docenti e strutture) che permangono nel tempo, la responsabilità nei confronti della collettività imporrebbe una riflessione su cosa ne faremo di quegli investimenti e di quei costi quando dovremo bruscamente ridurre i livelli di attività, da 15/20 mila 6/7 mila immatricolazioni annue. C’è, infine, una responsabilità nei confronti dei giovani che intraprendono un impegnativo percorso di studi e le loro famiglie. Il numero chiuso e un settore, come quello sanitario, con una prevalente presenza pubblica rassicurano giovani e famiglie rispetto alla bontà di un investimento di lungo periodo e ai suoi ritorni. Se l’investimento torna a essere, come ai tempi della “pletora medica”, rischioso, come minimo gli investitori andrebbero avvisati.
Mario Del Vecchio
Cergas SDA bocconi Milano