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Quando un farmaco è realmente "innovativo"

di Francesco Colantuoni

11 MAR - Gentile Direttore,
non sono stati in molti a riprendere la notizia che, negli Stati Uniti, un neonato, partorito da madre malata di AIDS conclamato, è guarito dall’infezione da HIV che le era stata diagnosticata alla nascita. Madre che, per inciso, non si era sottoposta alla profilassi per evitare il contagio maternoinfantile.

Un fatto importante per il trattamento della malattia che era stata definita ai suoi esordi “la peste del secolo” e che ora è invece considerata dai clinici una malattia cronica. E’ comprensibile che, con tutto quanto è successo in queste settimane a proposito di farmaci, sperimentazioni e questioni commerciali, questa piccola grande notizia sia passata in secondo piano. Eppure è importante anche per meglio comprendere lo scenario attuale.

Per cominciare, la piccola del Missouri è stata curata con un cocktail di tre farmaci, AZT, 3tc e nevirapina, non certo recentissimi, anzi: l’AZT è stato il primo farmaco a essere impiegato con successo in questa patologia. Lo ricordo bene perché, nel 1985, ho partecipato anch’io al lancio della molecola in Italia. E questo aspetto ci deve indurre a considerare il vero significato di innovazione. Sì perché l’AZT era già stato brevettato, come farmaco oncologico, e solo successivamente, si scoprì la sua azione sull’HIV.

Come dire che l’innovatività di un farmaco non è data dall’essere una molecola nuova o dall’essere frutto di una tecnologia inedita. L’innovazione è innanzitutto ampliare le possibilità di guarire, o almeno di curare con risultati significativi sulla vita del paziente. E’ ormai diffusa la convinzione che il progresso, anche in campo farmacologico, sia un processo lineare, nel quale ciò che realizziamo oggi sia migliore di quanto abbiamo fatto ieri. Spesso è così, ma non è necessariamente così.

Ed è qui che si deve innestare una considerazione etica: dobbiamo essere pronti a riconoscere che quanto abbiamo già può essere una soluzione migliore di quanto stiamo per acquisire, nella certezza che comunque abbiamo ampliato le nostre conoscenze anche se non con il risultato che speravamo.

In realtà il progresso assomiglia più a una spirale, che mentre la si percorre ci riporta sulle stesse coordinate, ma ogni volta a un livello più alto. E il caso della bambina del Missouri viene a ricordarci anche questo.

Francesco Colantuoni
Vicepresidente AssoGenerici


11 marzo 2014
© Riproduzione riservata

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