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Standard ospedalieri. Il regolamento ignora la natura orginaria di medici e infermieri

di Marcella Gostinelli

12 SET - Gentile direttore,
ho letto l’articolo del Prof. Cavicchi sugli standard ospedalieri. Condivido con il professore, in particolare, il pensiero che il regolamento sugli standard sia solo un atto separato e distinto, parte di una programmazione vecchia; aggiungo, una programmazione non scelta, ma imposta dagli eventi, mal definita e quindi chiusa, non conseguente alla complessità con cui avrebbe dovuto misurarsi. Un regolamento che, a mio avviso, denota una superficiale ponderazione del proprio sistema sanitario, prodotto di una programmazione che ruota intorno a pochi argomenti: risorse, limiti economici e quindi costi ed efficienza; esso consegue alle contraddizioni di chi programma e soprattutto alla pochezza delle metodologie logiche utilizzate, perché fatto con un solo tipo di politica sanitaria.

Quel regolamento non appartiene al suo tempo, ma al suo attuale, separato contesto organizzativo, non è quindi post moderno e neanche interconnesso con diverse razionalità e organizzazioni. Sicuramente è un regolamento in cui si è considerato i limiti del possibile senza l’apertura a monte del concepibile; un “possibile” non influenzato da un “concepibile”. Il “concepibile” pensa al posto letto e lo critica e lo riduce, ma dopo aver influenzato la rivisitazione dei modi di essere, “ degli stampi culturali che hanno il potere di caratterizzare le condotte operative”( I.Cavicchi, I mondi possibili della programmazione sanitaria,Mc G.Hill, Milano 2012); il riformatore che servirebbe, cambiando gli stampi culturali,concepisce la possibilità di spostare il versus delle riorganizzazioni ospedaliere, che fino ad oggi è stato dalla struttura alla funzione e mai dai modi di essere alla struttura.

Potrà cosi accadere che cambiando i modi di essere “ospedale” “medico", “infermiere”, “malato“, “cittadino” gli attuali posti letto risultino essere davvero troppi e cosi gli ospedali che li contengono e così gli infermieri, nello specifico di chi scrive, dentro gli ospedali. In un pensiero davvero riformatore, non limitato al “possibile” senza “concepibile, frutto di diverse razionalità intelligenti, il posto letto non sta solo in ospedale e quindi in una struttura, ma sta in un sistema di relazioni e quindi non necessariamente separato dal territorio e non necessariamente a gestione medica; il posto letto non serve un territorio, ma una comunità.

Per il riformatore passare dal concetto di territorio a quello di comunità conviene perché porta ad azioni concrete, prossime al soggetto beneficiario-contraente, e quindi alla pertinenza del bisogno, alla ridefinizione di universalismi locali; è infatti più facile conoscere il bisogno di una comunità piuttosto che quello di più comunità diverse insieme, è più facile, in una comunità, andare oltre le politiche di prevenzione delle malattie, responsabilizzare i soggetti alla tutela della propria salute e quindi poter ridurre i posti letto, garantire appropriatezza e adeguatezza degli interventi, ridurre le antieconimicità ed il contenzioso.

Il riformatore rende possibile il concepibile, o parti di esso, influenzando le organizzazioni verso presupposti di prossimità, di relazione, interconnessione. Per agire in modo determinante sull’animo e sulla volontà altrui, però, bisogna avere prima noi, chi programma, le idee chiare, bisogna essere nauseati dalla sola razionalità economica; è necessario che il programmatore post moderno dia spazio alle “visioni” e non solo alle prospettive. Il nuovo programmatore dovrebbe avere chiara l’importanza della ricostruzione, quanto più possibile, del grado di complessità di un bisogno di salute e di cura, ricostruzione che è resa possibile concependo l’articolazione dei diversi punti di vista professionali, delle diverse conoscenze, delle diverse risorse sociali e sanitarie e dei servizi contigui.

Il regolamento sugli standard, non riformato, ignora il modo di essere originario del medico e dell’infermiere, i quali sembrano curare “un letto”, ed il malato stesso che non è concepito come un essere che è anche una persona con una malattia, portatore cioè di una complessità oggettiva, quella della patologia, una complessità relativa alla sua esistenza di vita ed una complessità propria dell’essere dove l’opera dell’infermiere troverebbe senso e significato.
 
Marcella Gostinelli (Infermiera, dirigente sanitario)
 
 

12 settembre 2014
© Riproduzione riservata

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